“My name is Robbie Williams and for the next two hours your ass is mine!”
31 luglio 2013 – Con questa frase, ormai collaudata, si apre il concerto allo stadio San Siro di Milano per la sua unica data italiana del “Take the Crown Stadium Tour” e così anche il mio tentativo di “recensirlo” o, più che altro, di raccontarvelo.
Dimenticatevi l’obiettività. Sono una fan. Emotivamente parlando, posso essere tutto tranne che obiettiva.
Quello che posso dire però è che ammetto di essere partita un po’ prevenuta. Non avrei mai detto che, dopo così tanti anni di assenza, riuscisse a tenere un concerto di più di due ore con una tale energia, una voce pulita e ancora melodica ma, soprattutto, la sua indiscussa capacità di intrattenimento; l’ultimo tour da solista infatti “The Close Encounters” (io c’ero) risale al 2006.
Del resto è il tipo di artista che viene definito il classico “animale da palcoscenico”. Dimostra di ricordarsi perfettamente come si fa ed apre il concerto calandosi dall’alto. Parte “Let Me Entertain You” circondato da un palco a sua immagine e somiglianza, nel vero senso della parola, con la sua faccia scolpita in quella che sembra una roccia, color oro.
Ed è così che appena lo vedo si risvegliano in me antichi ricordi di diari di scuola tappezzati di fotografie, notti fatte di sogni in cui lo incontravo, raccoglitori con tutti i testi e le rispettive traduzioni (quel poco di inglese che so, lo devo a lui) e ante dell’armadio che ancora portano i segni del suo passaggio.
I decibel della mia voce si alzano a dismisura e ritorno ad essere la ragazzina di sedici anni che lo vide per la prima volta.
Canto a squarciagola ogni pezzo e mi invento spudoratamente le parole delle canzoni del nuovo album come “Be a Boy” e “Not Like the Others”che ancora non conosco bene.
Mi passano davanti i singoli più famosi Rock Dj, Kids, Millenium, Sexed Up, Come Undone, Sin Sin Sin e mi regala chicche come Me and My Monkey, Better Man, Hot Fudge e Monsoon.
Il tutto intervallato da momenti di dialogo e qualche tentativo di parlare in italiano che fanno divertire il pubblico. Fa salire sul palco Chiara, fortunatissima ventitreenne, (invidiatissima da tutte e da me profondamente odiata) che se lo abbraccia per tutta la durata di “Strong”.
Ci fa cantare le cover di “Minnie the Moocher” di Cab Calloway, diventata famosa grazie al film “The Blues Brothers” (avete presente quella che fa “heidi heidi heidi hi” in cui si chiede alla folla di ripetere gli stessi suoni, in un botta risposta sempre più complicato? Ecco, quella) e poi “Walk on the Wild Side” di Lou Reed e My Way di Sinatra.
Sono passate due ore, quasi senza accorgermene arriviamo alla fine e già mi si smuove un sentimento simile alla malinconia; esce e rientra con “Feel” e She’s the One”, ci guarda e ascolta compiaciuto le nostre voci che sovrastano la sua.
Con una lunghissima versione di “Angels” ci dà un ultimo saluto, stavolta quello vero.
Mi rendo conto che il pubblico di Robbie Williams cresce con lui e penso che il suo tentativo di prendersi, o nel suo caso riprendersi, la corona sia perfettamente riuscito.
Mentre sta per uscire mi sbraccio pur sapendo che non mi può vedere e neppure leggermi nel pensiero, ma gli prometto comunque che al prossimo concerto prenderò il biglietto per il prato e sicuramente sarò io la fortunatissima, invidiatissima e odiatissima ragazza che salirà sul suo palco.
Con questa certezza, mi addormento felice.
