Crystal Castles, da She-Ra all'Alcatraz di Milano
Scrivere all'uscita del terzo album di un gruppo che si pensava sarebbe stato una moda passeggera è un bell'impegno. Si potrebbe scrivere della sfida di due giovani di Toronto, di quanto si siano evoluti dal primo anno, dei loro live sempre sorprendenti o delle collaborazioni più varie tra beat chiptune, rubati alle community online, e Robert Smith. Eppure, ascoltando il loro terzo album, sembra che alla fine non siano stati all'altezza delle aspettative, innovativi o almeno pronti a guardarsi in faccia e farsi due calcoli.
Non c'è niente che non vada in effetti, forse sono troppo severo, ma dopo due album da cui si poteva estrapolare una sorta di evoluzione verso un sound più definito, questo terzo esercizio di stile proprio non ci voleva (non è un caso che i tre album abbiano lo stesso titolo? - Crystal Castles).
Andiamo con ordine, cerchiamo di capire meglio cosa è successo. I Crystal Castles nascono per caso. Leggenda vuole che, dopo aver rilasciato online una prova di registrazione dell'attuale cantante, Alice Glass, diverse case discografiche li abbiano contattati proponendo un contratto. Vinse la Lies Record che produsse una raccolta di singoli già rilasciati con l'aggiunta di un paio di canzoni registrate per l'occasione. E la storia puzza subito di bruciato, sia per i premi e i riconoscimenti avuti, sia per la curiosa storia dell'immagine di copertina: l'opera dell'artista Trevor Brown, la Madonna con l'occhio nero, utilizzata senza permessi con un'attitudine da “bhè, che problema c'è?”. Il problema è stato risolto con l'acquisto dei diritti dell'opera. Sembra strano, però, che un'etichetta spenda tanti soldi per finanziare un gruppo al primo album, ma non facciamo i maliziosi e proviamo a pensare che magari i giovani, ai tempi poco più che ventenni, erano talmente promettenti da giustificare un'azione del genere.
Purtroppo non è questo l'unico caso di infrazione di copyright, si parla anche di beat rubati per la realizzazione di Insectica e Love and Caring, ma tutto si è risolto felicemente (per i Crystal Castles) e i due hanno continuato indisturbati a vendere dischi e magliette, una bella soddisfazione per la Lies.
Nonostante questi problemucci il prodotto è andato alla grande e si è conquistato un posto nel cuore di giovani troppo punk per ascoltare techno e troppo radical chich per i Bad Religion, ma pieni di entusiasmo per le droghe chimiche e i rave.
Incredibilmente in un paio di anni Alice Glass e Ethan Kath raccolgono sempre più seguaci grazie alle loro performance esplosive tra batterie distrutte e stage diving e con partecipazioni mirate a festival e seguendo in tuor band come, tra i più famosi, i Nine Inch Nails.
Il secondo album del 2010 (Fiction Records) è, però, nettamente più maturo e sembra che i due stiano per fare il salto di qualità per essere santificati a un pubblico meno drogato e più interessato alla musica. Il caotico miscuglio di synth e voci distorte viene organizzato in pezzi più strutturati e le melodie frenetiche si trasformano in un omaggio alle atmosfere eurodance e eighty. Ma anche a due anni di distanza le mosse di marketing non mancano e la featuring di Robert Smith in Not In Love fa riflettere. Ci sarebbe anche da chiedersi a chi è servita questa partecipazione del gigante dei The Cure, ai Crystal Castles per darsi un tono da musicisti navigati o al ciccione (emo) per riconquistarsi una fetta di mercato più giovane?
Ed arriviamo, infine, al terzo album che ci regala tracce che proseguono per il filone synthpunk e chiptune, con qualche richiamo al secondo album in tracce come Wrath of God con dei bei tastieroni europei. Il tutto è condito con una buona dose di impegno sociopolitico dalla copertina di Samuel Aranda, fotoreporter d'assalto, che immortala una madre che abbraccia il figlio piegato in due dai gas lacrimogeni durante le manifestazioni in Yamen, a canzoni di protesta adolescenziale come Child I will hurt you. Il tutto sembra voler dire: il mondo è un posto brutto e cattivo, ma nasconde tante bellezze e noi sintentizziamo questo spirito, ravers cattivi, incazzati, stronzi, ma dall'animo tenero e coccoloso. Violent Youth è proprio un manifesto a questa predisposizione con un bel beat rimato e il testo snocciolato come una ninna nanna, una cantilena in cui questa generazione di hipster-indie, stronzi ma alla ricerca della vera bellezza (
), potranno riconoscersi.
Unica nota positiva le basi, soprattutto quella di Insulin, canzone dalle distorsioni poderose, forse troppo break, e troppo breve un minuto e quarantasette secondi di confusione che richiamano un po' i primi pezzi come Excuse Me del primo album che visto da questa prospettiva sembra il più autentico e originale dei tre.
I Crystal Castles, nonostante tutte queste critiche, rimangono un pezzo della storia della musica contemporanea, un piccolo tuffo nell'adolescenza disperata della periferia distrutta di una grande città in decadenza. Un ritorno alla piccola guerra interiore di tutti i giorni. Se non costassero trenta euro andrei anche a vederli all'Alcatraz il 24 febbraio, di sicuro ne varrebbe la pena, anche solo per le acrobazie dell'Alice che rimane comunque un gran bell'animale da palco.
