
Lou Reed, inguaribile trasformista
Iniziamo dai giorni nostri. Partiamo pure dalla fine, andando poi a ritroso, e citiamo il nome di una donna, Lulù, che è anche il nome di un disco. Lou Reed con i Metallica (2011), non è uno scherzo e non so quanti tra i rispettivi fan abbiano gridato allo scandalo. Magari gli adepti del newyorkese hanno addirittura pensato: “Ancora? Dai, basta con queste cose folli, rimani per un po’ te stesso”. Il Problema è che Lou Reed ama questi giochini, desidera ardentemente fare qualcosa di diverso, cambiare e trasformarsi – da solo o grazie ad altri – per creare qualcosa di cui parlare. Sì, perchè le sue molteplici facce non sono state apprezzate da tutti, c’è chi storceva il naso e chi lo avrebbe adorato comunque, anche se avesse deciso di musicare un film Disney.
Lou non arrivò a tanto nemmeno con i Metallica. Forse l’opera più discussa e distante da tutto ciò che ha fatto è stata Metal Machine Music (sottotitolo: An Electronic Instrumental Composition, 1975): cacofonie, distorsioni, rumori e riff messi insieme a differenti velocità. C’è ben poco di melodico o di classic, anche se, in un’intervista a Lester Bangs, il musicista dichiarò che nella cagnara dell’album erano stati inseriti appositamente dei rimandi a composizioni di musica classica. Cosa significa questo lavoro? Si tratta di una voglia di mandare a quel paese la casa discografica o i fan che richiedevano sempre le stesse canzoni? La RCA Records ha avuto le sue colpe, è vero, chiedendo al musicista di fare un album commerciale (Sally Can’t Dance, 1974) e un Live, in seguito alla pubblicazione di Berlin (1973) imposta da Lou Reed stesso. Berlin risulta essere troppo difficile, anarchico, triste e non ha riscontri di pubblico e di critica anche se si tratta di un lavoro elevatissimo, ovvero uno dei dischi fondamentali di Lou Reed.
Ma cosa ci fu prima di questi album e dopo che Lou Reed ebbe abbandonato i Velvet Underground (durante le registrazioni di Loaded, 1970), per ritirarsi in disparte a “leccarsi le ferite”? Dopo il suo primo e omonimo disco da solista (un flop), la stessa RCA gli presentò David Bowie (divenuto famosissimo all’epoca), proponendogli di farsi produrre il disco con Mick “Ronno” Ronson: due pesi massimi della musica, in pieno periodo glam. Lou accettò, l’affinità con loro cresceva di giorno in giorno e iniziò anche a collaborare con i musicisti (assolutamente degli estranei per lui, non aveva più un gruppo al suo fianco). Lou Reed cambiò in qualcosa di più glam, molto più vicino all’immagine del periodo di Bowie: trucco pesante giapponese, contorno occhi neri e sbrilluccichini vari.
Siamo nella Londra degli anni settanta ma il mondo della Factory e la persona di Andy Warhol non scomparirono, anzi, furono d’ispirazione per i testi delle canzoni di Tranformer (1972). La copertina del disco è un chiaro riferimento al decadentismo del periodo, i testi portano alla luce alcune zone, alcuni personaggi e delle tematiche che difficilmente resisterebbero in classifica: Lou assieme ai due produttori riuscì a fare questo ed altro. “Vicious” è nata da una richiesta di Warhol che voleva un testo per parlare del vizio e del rapporto tra amanti, un rapporto sado dove si picchia il partner con un fiore (cantato ambiguamente su un rock gaio: Vicious, you hit me with a flower, You do it every hour oh baby, you’re so vicious); “Andy’s Chest” è una filastrocca piena d’amore e d’odio, dedicata sempre a Warhol dopo che rischiò di morire per mano della femminista Valerie Solanas. La jazzy song “Perfect Day” è perfetta sul serio, tanto da ritornare in classifica, al numero uno, anche dopo venticinque anni (nel 1997, fu scelta dalla BBC come singolo in favore dell’UNICEF e cantata da diversi artisti).
“Satellite of Love” è la ballata glam per eccellenza, David è straordinario e il suo accompagnamento vocale è da brivido; il testo è ironico e beffardo e parla fondamentalmente di gelosia, ma di quella pesante. “Make Up” è l’inno al travestitismo sostenuto dalla tuba di Herbie Flowers e da queste semplici parole: Now, we’re coming out of our closets, Out on the streets. “New York Telephone Conversation” è in presa diretta: assieme alla voce di Reed c’è quella di Bowie e l’atmosfera è frivola, quasi si fosse in un cabaret, dove le persone non smettono un secondo di chiacchierare sui pettegolezzi del momento.
“Walk On The Wild Side” è il singolo, e un pezzo enorme nella sua semplicità, con un contrabbasso e un basso che, assieme a una batteria suonata con le spazzole, formano lo scheletro portante e ritmico. Lou Reed doveva fare delle canzoni per adattare il libro di Nelson Algren, A Walk on the Wild Side (1956), che Andy Warhol voleva trasportare a teatro; non se ne fece più nulla ma a Reed rimase questo brano che raccontava di spacciatori, attori, travestiti e drogati che giravano attorno alla Factory. Insomma, ha fregato tutti anche la BBC, che la fece passare parecchio senza capire fino in fondo il testo, forse perché sedotta dal sax finale di Ronnie Ross: una bomba.
Che sia stato tutto un compromesso, un travestitismo per diventare famoso o che sia solo l'inizio dell'evoluzioni di Lou Reed, cosa importa? Lui stesso, davanti alle telecamere disse: “E’ solo un album. Sono solo canzoni su un semplice album. Si fa un album e si ha tutta la vita d’avanti”.
Andrea Facchinetti
