
ICA e Josephsohn, connubio perfetto
C’è una strana analogia tra le opere di Hans Josephsohn e gli ambienti di ICA Milano, come se queste forme d’arte non potessero trovare spazio espositivo migliore.
Non è facile trovare l’ingresso del neonato Istituto Contemporaneo per le Arti ICA Milano. Se non fosse per il faro/torre di Fondazione Prada, il quartiere Ripamonti risulterebbe ai più un agglomerato di capannoni e furgoni. Eppure poco più in là, posta ad una adeguata distanza dall’ombra della white tower by OMA, è nata giusto due mesi fa (24 gennaio) ICA Milano, non solo uno spazio espositivo ma un progetto no profit voluto da un gruppo di curatori, collezionisti ed esperti museali.
Oltrepassato il cortile d’ingresso condiviso con una realtà commerciale e due capannoni per lo stoccaggio, ICA si presenta come un vecchio stabile industriale degli anni ’30 un po’ malconcio. Nonostante l’aspetto “spartano” del luogo, uno zerbino è posto all’ingresso di questa fondazione formato baracca, come a volerci ironicamente invitare a “pulirci le scarpe” prima di entrare.
E fan bene. Perchè senza alcun sipario o reception, appena superata la soglia, siamo già all'interno della mostra.
Curata da Alberto Salvadori, direttore artistico di ICA Milano, Hans Josephson è la prima personale italiana dedicata all’artista svizzero d’adozione attivo nella seconda metà del ‘900.
Una selezione di 39 sculture, bozzetti, disegni e un film documentario tracciano l’evoluzione e l’iter progettuale di un artista nato tedesco che, a causa delle origini ebree, ha dovuto lasciare prima la Germania e poi l’Italia, prima di stabilirsi definitivamente a Zurigo.
Il piano terra simil garage di ICA ci accoglie con 8 sculture suddivise fra half figures (figure a mezzo busto), una reclining figure (figura distesa) e una relief (rilievo) a parete.
La “plastica esistenziale” di cui sono fatte ci impone di passeggiare attorno a questi “volumi emotivi” dei quali è possibile riconoscere uno scheletro umano ricoperto però da continue superfetazioni, continue riflessioni, continue aggiunte e sottrazioni di materia che evidenziano il gesto autoriale dell’artista.
Il gesso, utilizzato come base per la successiva fusione in ottone, consentiva a Josephson di assemblare la figura, di saltare liberamente fra la figurazione e l’astrazione, fra la riconoscibilità e l’irriconoscibilità del reale, il tutto sotto lo sguardo vigile di un artista-creatore la cui firma è visibile nelle impronte e nei segni degli strumenti di lavoro lasciati visibili sulla superficie della scultura.
La luce penetra con più vigore all’interno degli ambienti del primo piano: suddivise fra piccole celle monastiche e un ampio salone, standing figures (figure in piedi), reliefs e relief sketches (rilievi e bozzetti) e una seconda reclining figure acquistano una vitalità e una dinamicità che trascende la pesantezza della materia di cui sono fatte.
Una raccolta di schizzi e disegni preparatori fungono da sostegno, insieme al docufilm di Matthias Kälin e Laurin Merz, alla comprensione di un percorso progettuale caratterizzato da continui ripensamenti e modifiche imposti prima del raggiungimento del risultato finale.
C’è una strana analogia tra le opere di Hans Josephsohn e gli ambienti di ICA Milano, come se queste forme d’arte non potessero trovare spazio espositivo migliore di quello proposto dalla fondazione no profit in via Orobia 26.
Le figure sono solenni ma non sono grandiose. Dei reperti provenienti da un qualche scavo archeologico sono messi in mostra in una struttura ripulita da ogni abbellimento, scarna, con i segni evidenti dei battiscopa strappati dalle pareti e la sensazione precaria di un piede che cammina non su piastrelle, ma sul cemento del solaio.
ICA non appare come una cornice, ma come un’estensione di quella “plastica esistenziale” utilizzata da Josephson per comprendere e raffigurare la condizione umana.
Come l’identità e la memoria umana traspaiono dalle sue sculture, così l’identità e la memoria architettonica trasudano dalle pareti di ICA Milano, laboratorio che si fa portavoce di un atteggiamento nei confronti dell’arte contemporanea di rispettoso passo indietro rispetto all’arte esposta ma che, come in questo caso, non fa altro che, forse inconsciamente ma egregiamente, potenziarne il suo significato.
Insomma, nessun caso di radical chic.
Giuseppe Cristian Bonanomi
HANS JOSEPHON
24.03.2019 - 02.06.2019
INGRESSO LIBERO
Mostra in italiano e inglese
ORARI D'APERTURA
giovedì, venerdì, sabato, domenica 12.00 – 20.00
ICA MILANO
Via Orobia 26, 20139 Milano
(a 10 min a piedi da fermata Lodi T.I.B.B. METRO M3)
https://www.icamilano.it/
