
Il Papa: Di[s]messo
Se è vero che certi avvenimenti, per loro natura eccezionale, si verificano ogni settecento anni, allora non ho saputo resistere.
Mi sono detto, scrivi nella sezione stile di Nerospinto, il papa non c’entra. E mentre me lo ripetevo, per non voler cadere nella rete che io stesso stavo tessendo, sono già intrappolato. Con una tesi precisa. E penso a come scriverne. Non è semplice e può sembrare presuntuoso, retorico. Allo stesso tempo però mi convinco che Nerospinto non sia un contenitore necessariamente corretto. E’ approfondito, è critico, è interessato. Ma non si limita.
Posso quindi palesare il mio oltraggio e dichiarare a chi leggendo è già arrivato a questo punto: “Si, come ogni settimana stavo per pubblicare il mio approfondimento sullo stile. E invece, me ne infischio. E parlo del Papa. Anche se non mi è richiesto, anche se non era nei patti.”
E nel mio rompere la regola, l’accordo per il quale mi è stato conferito questo spazio per scrivere, vado completamente contro ogni pudore: ho la presunzione di poter parlare di Ratzinger portando la questione mediatica all’effimero mondo che questa sezione rappresenta.
Del resto, se in termini di “stile” ci si riferisce alla sua definizione più ampia, nessuno può controbattere che una dimissione papale non sia un gesto -anche - di stile.
Già il fatto che sorprenda e abbia l’eccezionalità di un evento millenario, presuppone di per sé una scelta di forma, dunque di stile.
A questo punto di quanto scritto, chi è arrivato a leggere fin qui è uscito indenne dallo stizzirsi e giudicarmi nell’ associare questi due piani.
Da un lato c’è un uomo bianco, da otto anni vestito di bianco, che ha ereditato un abito ingombrante, indossato da uno delle più grandi icone pop a livello planetario, Karol Wojtyla.
Un abito pesante, il simbolo di un credo, la traduzione stilistica di una rappresentanza mistica.
Un uomo che ieri dichiara: torno ad indossare il rosso, mi sporco di colore. Torno alle sfumature del sangue, alla palette più umana e terrena. Un colore che non è mai stato solo peccato. Un colore che è vigore, che è rivoluzione, che è rinascita.
Un colore che descrive benissimo le sue parole di congedo. Peccato solo per quel polveroso latino.
Un gesto che è ben oltre la dimensione religiosa, che invoca risveglio non necessariamente cristiano, ma più apertamente filosofico, intellettuale, creativo.
Uno dei più noti esponenti di una fede che generalmente parla alle masse dichiarando cosa è giusto e cosa è sbagliato, depone l’anello e invoca la sua fragilità. Una fragilità non religiosa, ma muscolare, psicologica.
E’ in fondo semplice, dice di non farcela. Annuncia che non può rivestire tale responsabilità e indossare quell’abito. E questo, se portato fuori da ogni preciso contesto, è un gesto di stile nobile, raro, di chi si spoglia davvero. Al di là di quello che si pensi in materia religiosa. Uno di quei gesti che fa il giro del mondo e capita, lo ripeto, ogni settecento anni.
Io non sono cattolico, e nonostante questo, non riesco a fare a meno di pensare che riguardi anche me. E confesso di vergognarmi anche un bel po’. E da quello che leggo, anche permeato spesso da slanci d’ironia, citazioni irriverenti che mi hanno reso partecipe, sento comunque che sia la manifestazione di un disagio che riguarda un po’ tutti. Esattamente come quando si scherza su qualcosa per esorcizzare, in fondo, una qualche paura che non si riesce a definire.
E quindi questo non dovrebbe instillare a tutti un qualche dubbio, una qualche riflessione?
Un chiederci collettivo: non ci eravamo forse persi o intorpiditi nelle nostre piccole cose, fatte di altre cose ancora più piccole? E questo uomo, indipendentemente dall’essere credenti o no, è forse il bambino che urla “Il re è nudo!” perché unico a vederlo, mentre gli altri sono talmente rapiti da quello che quell’uomo rappresenta dal riuscire a vederlo senza alcun abito?
E quindi questo non riguarda forse un po’ tutti, al di là dell’età, delle ideologie, del genere, del ruolo che si ha in quello che chiamiamo “società”?
E ci siamo allora tutti, lì dentro. E tutti, nel proprio infinitamente piccolo, dovremmo forse chiederci se quello che facciamo ha davvero un senso. Un senso, poi un significato, una responsabilità e infine uno stile.
Uno stile che è anche il modo in cui mediaticamente veicoliamo il corpo e la sua immagine. L’abito che creiamo. Il significato che gli diamo. Le persone a cui concediamo di indossarli, certi “vestiti”.
Vestiti che per la prima e unica volta non riesco ad associare a tessuti, trame, forme e riferimenti.
Uno stile molto diverso, che sta dietro a chi gestisce i poteri tutti, mediatici, economici, sociali, politici, e la lista potrebbe continuare all’infinito. Persone che per essere lì, ad esercitare questo potere, dovrebbero avere la legittimazione di tutti gli altri, per l’enorme senso di responsabilità che assumono.
Uno stile che se non necessariamente va rivisto, ma almeno va messo in discussione, interrogato.
E allora sarebbe interessante chiedercelo tutti, che male non ci fa. Indipendentemente dall’essere una qualunque cosa o l’altra, trend setter o follower, stilisti o consumatori, redattori o lettori, creativi o razionali, pensatori colti o rozzi, curiosi o restii.
Chiediamoci se in quello che facciamo, abbiamo davvero uno stile. Proviamo a ricordarci che tutto quello che facciamo, in ogni gesto o intenzione, ha sempre e comunque una responsabilità collettiva. Anche se avesse conseguenze per solo un altro di noi.
Di un solo esito penso di essere certo. Sono sicuro che se davvero lo facessimo tutti, tutti davvero, il risultato non potrebbe che essere qualcosa di migliore dal non averlo fatto.
E tutto sarebbe più bello, anche gli abiti, comuni e non. E chi li indossa.
E se quanto scritto attirerà molte critiche o sembrerà non significare niente…..beh. Sarò coerente. Farò una scelta di stile: mi dimetterò dall’incarico. Forse.
