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Intervista a Tommaso Agnese, regista e autore di Apocalisse di un Cybernauta

Apocalisse di un Cybernauta del regista di cinema, tv e teatro, sceneggiatore e creative producer Tommaso Agnese, che fa seguito al fortunato Diario erotico di un Cybernauta (diventato in poco tempo un piccolo caso letterario), è una sorta di psicopatologia del Postmoderno in forma narrativa: una sfera emotiva perturbata, quella del protagonista Riccardo- che vive, in senso baumaniano- tutta l’ambivalenza di relazioni sempre più liquide.


Incastrato nelle maglie di un desiderio nevrotico e autodistruttivo, Riccardo diventa oggetto a perdere, uomo senza legami che naviga nelle acque pericolose di un’estetizzazione diffusa.
Nel finale la darkness esistenziale (frequente nel romanzo il richiamo a Conrad) sembra squarciarsi, rivelando uno spiraglio di redenzione.

Nel 2012 è nata la rivista cartacea Fabrique du Cinéma, (della quale è manager, N.d.R.) con dichiarato richiamo ai Cahiers du Cinéma, culla della Nouvelle vague. Negli anni c’è stata una evoluzione dell’iniziale critica di stampo fenomenologico?

“Il mondo non è ciò che io penso, ma ciò che io vivo” questo sostiene Marcel Merleau-Ponty nella sua Fenomenologia della percezione, dunque l’uomo è condannato al senso poiché “quando percepisco, non penso il mondo, ma è il mondo ad organizzarsi davanti a me”. E’ da questi presupposti che la fenomenologia si accosta al cinema come arte, nella sua capacità di far vivere emozioni, di far percepire. Rispetto al passato, dove la sala era luogo di grande percezione, posso dire che con il digitale si è tutto rimpicciolito e siamo molto più abituati ormai a realtà di finzione che ci si creano davanti agli occhi su di uno schermo in continuazione. Oggi quello che ci vorrebbe è riportare il cinema nelle sale e le sale al loro ruolo di moltiplicatori di sensi. Riguardo alla critica cinematografica pura, rispetto ad un tempo, oggi sembra che chiunque possa fare il critico di cinema, chiunque possa dire se un film è fatto bene o male, quando in realtà saper leggere la costruzione narrativa e il linguaggio di un film è cosa molto complessa, a cui sempre meno esperti, si dedicano con reale attenzione. Dentro Fabrique noi cerchiamo la novità e raccontiamo il nuovo, mettendo al primo posto il linguaggio.

 

Lei è anche creative producer di serie televisive, a che punto è in Italia- a suo avviso- la creazione di un modello originale di serialità che possa interessare anche il mercato internazionale?

Siamo ad una via di mezzo. Da una parte continuiamo nella direzione delle classiche serialità popolari e generaliste, dall’altra c’è un filone di serialità che mira grazie al sostengo di piattaforme come Netflix, Amazon e Disney, ad un rinnovamento. Questo rinnovamento è contagioso e anche le reti generaliste con molti prodotti lo inseguono. Dove sta il rischio? Il rischio è pensare di poter applicare modelli industriali stile USA in un paese come il nostro dove non c’è la cultura del modello e dell’industria. Per cui tanti prodotti finiscono nel dimenticatoio sostituiti nel breve tempo da nuove produzione senza mai lasciare il segno. Quello che è necessario oggi a mio avviso è trovare una sinergia tra quello che siamo noi, artigiani, artisti, sognatori e la meccanica industriale estera, che deve tener conto di una differente matrice culturale. A quel punto potremo realizzare più Gomorra, più serie dal cuore italiano che diventano internazionali, veri e propri cult.

Quanto ha pesato, nella realizzazione del lungometraggio di finzione Mi chiamo Maya la sua esperienza di documentarista?

Venivo da diversi progetti documentaristici sul tema del disagio adolescenziale, avevo fatto numerose ricerche, intervistato ragazzi e ragazze, passando per scuole e istituti dalla periferia ai quartieri bene di Roma. Supportato dalla ASL Roma E ho incontrato realtà anche drammatiche. Devo ringraziare il mio amico e allora dirigente Asl Antonio Romano che mi aveva permesso di raccontare gli adolescenti in modo reale e concreto. Mi chiamo Maya nasce da questo cammino.

La rappresentazione di un malessere interiore sembra essere uno dei tòpoi della sua produzione (filmica e letteraria)…o sbaglio?

Non è un tòpos di quasi tutti gli artisti? Credo che il malessere esistenziale sia alla base della riflessione su ciò che ci circonda, sul perché di tante cose. Se non avessimo questo malessere andrebbe tutto bene, e non ci sarebbe bisogno di riflettere. La riflessione profonda su noi stessi è un momento fondamentale per ogni artista a mio avviso, e il malessere non è altro che la consacrazione delle fragilità dell’animo umano, che necessita per chi ha una grande sensibilità di una importante analisi e allo stesso tempo è il motore dell’ispirazione di tanti processi e creazioni.

 

Nel suo secondo romanzo Apocalisse di un cybernauta (Edizioni Augh!, 2021) viene citato più volte il romanzo di Conrad Cuore di tenebra; il titolo sembra contemporaneamente un rimando al film di Coppola che trae spunto dal libro…che peso hanno avuto sulla stesura del romanzo queste suggestioni letterarie e filmiche?

Cuore di tenebra, uno dei libri preferiti di mio padre, così come il film capolavoro di Coppola. Quando ero piccolo papà mi raccontava la scena iniziale quando Martin Sheen faceva mosse di karate in una stanza a Saigon sulle note di The End dei Doors, e il rumore delle pale degli elicotteri che facevano vibrare le finestre. Quando ero più grande sempre mio padre mi spiegava il significato del viaggio verso l’abisso del colonnello Kurtz citando Nietzsche: “Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro.” Sono profonde suggestioni sul viaggio di un eroe verso l’ignoto e sulla condizione umana quando si tocca l’oblio.

 



In una bellissima pagina di critica Emiliano Morreale* ha raffrontato il viaggio di Conrad (sinuoso e labirintico fin dall’incipit, con il ruotare (swing) della nave intorno a se stessa, con quello di Apocalypse Now, che “invece sembra piuttosto verticale, una discesa agli inferi nella quale la barca sembra impercettibilmente scivolare verso il basso.” Come definirebbe il viaggio del giovane protagonista della sua dilogìa, Riccardo?

Il viaggio di Riccardo è altalenante, apparentemente verticale verso il basso, il fondo. Ma un attimo prima di toccarlo riesce a rialzarsi, a volte si perde nell’abisso come Kurtz a volte riesce a trovare la strada come fa Willard. Cerca di riempire un vuoto, senza capire che il vuoto è parte di sé e non va riempito ma solo compreso. Riccardo è una vittima, ma allo stesso tempo è il carnefice di se stesso. Però ha coraggio, il coraggio di buttarsi in situazioni estreme per provare il brivido, il coraggio di sbagliare e il coraggio di provare a salvarsi. Ha paura di soffrire, ma soffre, non vorrebbe, ma è inevitabile. E’ attratto dall’erotismo ma ne ha una visione elevata, che gli permette di fare una profonda riflessione su se stesso e gli altri.

 

 

*(Emiliano Morreale, "The Horror, The Horror!". Coppola Conrad e Hollywood, in Dal cuore della tenebra all'apocalisse. Francis Ford Coppola legge Joseph Conrad, a cura di Luigi Cimmino, Daniele Dottorini, Giorgio Pangaro, Rubbettino, 2011)

Ig: https://www.instagram.com/tommaso_agnese/
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Photo Credits: Frida Miranda e Giulia Valentini

 

Claudia Erba

Beniamino Strani

Mi chiamo Beniamino Strani, ho 24 anni e sono laureato in ‘Scienze dell’Informazione: Comunicazione Pubblica e Tecniche Giornalistiche’. Ho poi ottenuto un Master in ‘Critica Musicale’. Amo ogni forma di comunicazione e tra un articolo e un altro, pubblico delle poesie su un blog. 

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