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Graziano Cacciopoli, finalmente dopo anni di sacrificio e dedizione riceve l’ambita stella. Il successo del ristorante San Giorgio è caratterizzato dall’amore per l’alta gastronomia; grazie soprattutto a Danilo Scala, patron e Graziano Cacciopoli, che vanta nel suo curriculum esperienze stellate e il premio “Miglior Chef pasticcere per la Guida Identità Golose”. Il Ristorante San Giorgio è un luogo in cui l'attenzione per i dettagli, la cura e la selezione degli ingredienti sono le caratteristiche che lo contraddistinguono. Una cucina semplice ed elegante dove emergono le origini campane dello Chef assieme al mix perfetto della tradizione ligure. 

 

Fracchiolla Martina

De Chirico a Genova|||

Che cosa c’è di più illogico di un mare dentro ad una stanza o una poltrona in mezzo ad un prato?

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Per la 27° edizione della Partita del Cuore, la Nazionale Cantanti scende in campo insieme ai Campioni del Sorriso, una squadra speciale formata da grandi artisti, sportivi, personalità nazionali e internazionali. L’appuntamento è per mercoledì 30 allo Stadio Ferraris di Genova e, come sempre, su Rai 1.

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Tabemono No Bi è il titolo della mostra, visitabile fino al 25 giugno 2016, al Museo d'Arte Orientale Chiossone di Genova, dedicata alla cucina Washoku, letteralmente "cucina giapponese".
 
Ancora una volta è proprio il mondo nipponico ad affascinarci e se la gran parte di noi ormai è diventato un vero e proprio "jappo addicted", perché non approfondire la conoscenza di un'arte culinaria così lontana dalla nostra tradizione, ma al contempo ormai presente nella nostra quotidianità?
 
 
 
Questo è l'intento di Donatella Failla, che ha curato la mostra. Un percorso espositivo articolato attraverso sei temi chiave, dalle influenze shintoiste e buddhiste sulle abitudini culinarie giapponesi, per poi giungere alle risorse delle acque e dei campi, riso e sake, e passando poi per i tradizionali suppellettili in ceramica decorati da lacche finemente lavorate, funzionali anche alle cerimonie del té, Chanoyu e Sencha, giungendo fino ai primi ristoranti alla moda del periodo postmoderno, per concludere poi con le influenze derivanti dalle culture occidentali, già a partire dal periodo Meiji (1868-1912).
 
Come già detto, la cucina giapponese è tra le più antiche e apprezzate al mondo, fino ad essere riconosciuta come patrimonio intangibile dell'umanità dall'Unesco. Questa rassegna indaga una cultura profondamente diversa dalla nostra, anche per le modalità in cui si manifesta: lacche, stampe policrome, dipinti, porcellane, bronzi e oggetti tradizionali compongono la collezione del museo Chiossone, una collezione che basta a sé stessa ed al contempo cangiante, in grado di evidenziare diversi aspetti che, come nel caso di Tabemono No Bi, esalta la tavola e del gusto giapponesi.
 
 
Francesca Bottin
 
Tabemono No Bi [Dal 30 ottobre 2015 al 25 giugno 2016]
Museo d’Arte Orientale Chiossone
Piazzale Mazini 1, Genova
Mar - Ven h.8:30 - 18:00
Sab e Dom h.9:30 - 18:30 Info: Tel. 010 542285 – www.museidigenova.it
TABEMONO NO BI - GALLERY - NEROSPINTO
 

 

 

 

 

La rassegna programmata dal 30 ottobre al 9 novembre, al teatro Elfo Puccini di Milano in sala Bausch, arriva alla sua quarta edizione, portando alla ribalta giovani talenti, compagnie emergenti, gruppi indipendenti che vogliono stimolare un nuovo pubblico, sempre più trasversale e inter-generazionale.

 

 

 

 

 

Il progetto "Nuove storie" propone come inaugurazione della stagione 2014/2015  Faust Marlowe burlesque, che presenta un copione che ha segnato (e scandalizzato) il teatro del secondo Novecento. Dal 30 ottobre al 9 novembre 2014 si potrà quindi assistere alla storia di immortalità e dannazione, perdono e salvezza eterna che, almeno per sentito dire, quasi tutti conoscono, quella tra Faust e Mefistofele.

 

Ma forse non tutti conoscono la versione che due grandi autori di teatro, Aldo Trionfo e Lorenzo Salveti, hanno scritto nel 1976 per due monumenti del palcoscenico come Carmelo Bene e Franco Branciaroli.

Gli autori elaborano un gioco, fatto di scherzi divertiti, inversioni di genere, ammiccamenti di seduzione reciproca, nel quale i personaggi finiscono per rappresentare le due facce della stessa medaglia: la dannazione di Faust, spintosi troppo in là nella ricerca dell’immortalita, è anche la solitudine di Mefistofele. Fino a giungere ad una progressiva crisi di identità per entrambi.

 

Sotto la regia di Massimo di Michele, l'approccio giusto per poter vivere tale spettacolo è quello di accantonare gli interpreti originali per potersi accostare ad un'opera così complessa, ricca di sfumature e di caratteristiche psicologiche.

Proponendo testi originali e autori stranieri scoperti dal teatro italiano, il nucleo generatore di queste "nuove storie" di oggi e di domani è sempre la parola, che qui diventa concreta, si imprime delle tensioni contemporanee e si attualizzata in messinscena di intensa fisicità.

 

INFO

Faust Marlowe Burlesque Durata: 70'

Teatro Elfo Puccini Corso Buenos Aires, 33 - 20124 Milano Tel. 02 00660606

 

Orari Martedì - Sabato: 19.30 - Domenica: 15.30

 

Prezzi Posto unico: 15 €

 

Indira Fassioni

 

 

È il più grande innovatore del teatro italiano,l’unico che è riuscito ad avvicinarsi all’amarezza,al realismo di Eduardo De Filippo, alla sperimentazione e alla ricerca del teatro newyorkese con la stessa intensità e bravura. Carlo Cecchi dichiara di amare Shakespeare sopra ogni altra cosa, di considerarlo il suo unico maestro, ma poi sulle tavole del palcoscenico offre ai suoi spettatori interpretazioni crude e prive di ogni fronzolo del teatro elisabettiano avvicinandosi alla contemporaneità amara e gotica di Carmelo Bene.

 

Cecchi sa essere magistrale nella prosa radiofonica e nell’interpretazione cinematografica. Incanta con la sua voce profonda e cupa e con la sua gestualità misurata, intensa, essenziale che ha imparato e sperimentato recitando Cechov, Pirandello, Brecht, Moliere.

Carlo Cecchi è il solo attore italiano vivente che sa essere uno e centomila insieme, ma che sa trasformarsi in “nessuno” quando deve dare l’idea del senso stesso dell’esistenza umana.

 

 

Per questo registi importanti e internazionali, ma anche autori esordienti come Martone e Valeria Golino si sono affidati completamente a lui quando si è trattato di portare in scena personaggi difficili, attuali e drammaticamente veri.

 

 

In Morte di un matematico napoletano Cecchi rivela al pubblico del grande schermo quanto possa diventare tediosa e insopportabile la vita, anche per un razionale e serioso professore di matematica pura.

Il film è una denuncia sociale delle più dure e Carlo Cecchi rende il personaggio di Renato Caccioppoli così reale e orribile da meritarsi il Premio Speciale al Festival di Venezia.

 

Nel 2007 gli viene consegnato il premio Gassman come migliore attore teatrale, ma Cecchi ha già girato film come Il bagno turco, Arrivederci amore, ciao, Il violino rosso, Io ballo da sola.

 

Nato a Firenze nel 1939, dove ha cominciato a recitare poco più che ragazzo, si è fatto conoscere dal grande pubblico e dalla critica con Finale di partita di Samuel Beckett, la più grande interpretazione mai stata fatta del protagonista dell’opera in tutta la storia del teatro.

 

Per Carlo Cecchi il teatro è tutto, il rapporto tra attore e pubblico in sala diventa allora per lui l’unica forma possibile di dialogo e di arte. “Il teatro è calore, è vita, ed è l'unica forma d'arte che non si trova su internet” dice spesso a tutti, una filosofia che egli per primo segue scrupolosamente e quando si “presta” al cinema lo fa solo per sceneggiature che hanno una scrittura quanto più vicina a quella teatrale, ovvero pura ed essenziale.

 

La sua ultima fatica cinematografica lo vede nei panni del coprotagonista del lungometraggio, Miele, diretto da Valeria Golino. La sceneggiatura è tratta da un romanzo di Covacich, ma il personaggio interpretato da Carlo Cecchi rimanda a ben altro.

Sicuramente è presente un richiamo al matematico napoletano di Martone, con la medesima difficoltà di vivere una vita che non appassiona più e da cui non si pretende più nulla; e ai più attenti non sarà sfuggita neppure la similitudine con la scelta inaspettata e lucida di Mario Monicelli, che ultranovantenne decide di suicidarsi buttandosi dalla finestra della sua camera di ospedale.

 

Carlo Cecchi  diventa, così,  la trasposizione concettuale, teatrale e filmica di uomini veri, reali, tormentati e coraggiosi, almeno a loro modo, e lo fa con tutto il rigore dell’attore novecentesco e la modernità dell’uomo contemporaneo, unendo luci e ombre, interpretazione classica e attualità di linguaggio.

Se pensiamo poi che lui non ama e non ha mai amato definirsi artista ma solo attore si può comprendere quanto per lui recitare non sia soltanto una professione ma la passione che guida le sue scelte e lo fa reinventare a ogni nuova interpretazione e a ogni nuovo personaggio.

La stessa morte per Carlo Cecchi diventa allora metafora e allegoria da accogliere fino in fondo per dare un senso compiuto alla vita di ogni uomo.

Carmelo Bene

Sono passati dieci anni dalla morte di Carmelo Bene. Dieci anni in cui l’Italia, assieme al suo panorama culturale e sociale, ha conosciuto profondi cambiamenti, diventando un paese in cui sembra che le arti espressive fatichino a trovare una propria dimensione. Ma in questi anni la figura dell’eclettico Carmelo Bene non ha cessato di suscitare interesse e fascino, anche nelle generazioni più giovani.

Carmelo Bene nasce a Campi Salentina, in provincia di Lecce, nel 1937.

Bene svolge i primi studi classici presso un collegio di gesuiti e nel 1957 si iscrive all'Accademia d'Arte Drammatica per lasciarla appena l'anno dopo, definendola semplicemente inutile. Dal 1959 inizia la sua carriera di attore e regista teatrale, sempre orientato verso la rielaborazione dei classici; rielaborazioni che, in realtà, erano veri e propri esercizi di decostruzione e smembramento, ma che lui si limitava a definire semplicemente come “variazioni”.

Il centro della riflessione artistica di Bene è una radicale riconsiderazione della parola e dell’immagine: egli applica ai suoi spettacoli teatrali una quantità tale di erudizione, di impegno teoretico e di ricerca, che solo un filosofo potrebbe applicare in un trattato. Sperimentatore assoluto (si avvarrà spesso di sofisticate apparecchiature elettroniche costituite da amplificatori, microfoni ipersensibili, monitor-spie da diecimila watt) egli tenta il superamento della dimensione linguistico-comunicativa attraverso la manipolazione tecnica del significante.

Fu così che, in poco tempo, l’attore-autore riuscì a far parlare di se’, facendo esplodere in Italia un vero e proprio “caso Carmelo Bene”: portato alla ribalta della cronaca artistica, Bene affascinò personaggi del calibro di Pier Paolo Pasolini, il quale lo volle come interprete del suo Edipo Re e con il quale ebbe inizio la sua parentesi cinematografica.

Nel 1965 Bene si avvicinò al mondo della scrittura, pubblicando il romanzo Nostra signora dei turchi, che verrà messo in scena l'anno seguente. Trasformato in film, Nostra signora dei turchi venne presentato al festival del cinema di Venezia, dove ricevette il premio speciale della giuria. Seguirono altri film: Capricci (1969), Don Giovanni (1970), Salomè, (1972) e Un Amleto in meno (1973), con cui si concluse la sua esperienza cinematografica.

Nel 1974, torna al suo primo vero amore, il teatro, proponendo una sconvolgente interpretazione de La cena delle beffe, la quale aprì la strada ad una svolta "concertistica" che culminò con il poema sinfonico Manfred, del 1980, costruito su musiche di Schumann ed apprezzato tanto dalla critica quanto dal pubblico.

Negli stessi anni Bene porta sulle scene i grandi classici della poesia italiana, sono memorabili le sue interpretazioni dei Canti orfici di Dino Campana, dei Canti leopardiani e le sue letture dantesche; performance che sono viste ancora oggi tra gli omaggi più toccanti e sentiti che un attore abbia potuto fare alla poesia.

Lui stesso nel 2000, pubblicando la raccolta ‘L mal de’ fiori, si cimentò con la scrittura in versi, vista da Bene come la possibilità ultima di una ricerca linguistica che doveva culminare verso un totale e vero “svuotamento” . Sarà proprio lui a dire, in un’intervista:

“Nel 'mal di questi fiori' si fa sempre più solare il fatto che laddove il tutto possa sembrare una eruzione vulcanica, è invece somma-sottrattiva che, mediante le più svariate soluzioni chimico-linguistiche, via via si svuota.”

Incensato da filosofi del calibro di Gilles Deleuze, ma quasi totalmente incompreso dagli intellettuali italiani del suo tempo, Bene si cimentò anche in performance televisive (memorabili le sue due apparizioni al Maurizio Costanzo show, dove esordì con la frase “È con infinita agape, molto più che schopenhaueriana, che ho compreso, senza per questo immedesimarmi, di essere di fronte a una platea di morti”) nelle quali seppe fare sfoggio di tutte le sue doti di provocatore e seduttore delle masse.

Ma al di là dell'idea provocatoria ed eccessiva che Carmelo Bene ha potuto suscitare, resta viva la potenza di una ricerca radicale dell’uomo e dell’ “artista in quanto uomo”, di una personalità mai sottoponibile a schematizzazioni, ma anzi generosa in maniera multiforme anche se contraddittoria. Per citare le sue medesime parole: “Il problema è che l'io affiora, per quanto noi vogliamo schiacciarlo, comprimerlo. Ma finalmente, prima o poi, questa piccola volontà andrà smarrita. Come dico sempre: il grande teatro deve essere buio e deserto".

Dopotutto Bene

"Io sono il vortice insensato delle trottola il movimento e la sua negazione, sono l'antiumanesimo, Lorenzaccio che decapita le statue, Aguirre che si firma il traditore. Carmelo Bene, perché, soggetto alla necessità del nome, come rassegnazione al destino."

Carmelo Bene

Straordinario attore, regista, drammaturgo, a dieci anni dalla scomparsa, si inciampa ancora, per fortuna, nei resti di Carmelo Bene, vaganti monadi nello spazio cosmico.

Non c'è un dopo Carmelo Bene semplicemente perché CB continua ad essere l'unica eredità possibile di se stesso. Avendo compiuto un vorticoso spietato lavorio di cancellazione, segno dopo segno, contenente l'immemorialità del suo stesso futuro.

Al tempo stesso ciò che manca di Carmelo Bene è proprio Carmelo Bene, in quanto "artifex". Come nel Teatro della crudeltà di Artaud, ciò che conta nell'arte è il prodursi dell'artefice e non il prodotto artistico. L'opera è il cadavere dell'evento, dell'esecuzione, del gesto, dell'atto. L'escremento derridiano del corpo attoriale.

(S)finito il suo percorso, ciò che rimane sono i danni, i detriti e, a chi resta, il duro compito di fare i conti.

Dopo la sua scomparsa, ho frequentato il fantasma di Bene per un anno e mezzo, lavorando nella sua casa romana di via Aventina alla cura del lascito artistico. Sotto lo sguardo vuoto degli angeli del Bernini dell'Hommelette for Hamlet adagiati nel giardino, immerso tra carte, spartiti, nastri, scenografie e velluti, ho avuto modo di constatare il rigore con cui Carmelo Bene concepiva il proprio lavoro. Una ricerca dell'impossibile, puntualmente compiuta spettacolo dopo spettacolo, scena dopo scena.

L'attentattore Carmelo Bene, nel viola dell'ombra dei drappi della sua abitazione, studiava clinicamente come dissezionare il linguaggio. Come operare sull'opera. Tra miliardi di appunti, stratificazioni di autori, emergeva il riflesso del gesto artistico, di cui lo spettacolo era solo, effettivamente, lo sconcerto. Il diabolico contro il simbolico.

E' un lavoro difficile cercare di restituire almeno in parte l'alone di quello che Carmelo Bene è stato. Forse addirittura impossibile perché ciò che sfugge, ora ancora di più, è il corpo dell'attore. Sempre negato da CB sulla scena, come negli altri linguaggi da lui frequentati, ed ormai svanito una volta per tutte.

Sottratto il corpo, rimane però il corpus delle opere sui cui riflettere. Tentativo, tra i tanti in questo decennale, è il volume da me curato per i tipi di Bompiani dal titolo PANTA CARMELO BENE che offre al lettore una selezione delle migliori interviste rilasciate da CB nell'arco di tutto il suo percorso artistico. Oltre ad offrire una lente per osservare meglio il maestro, questo lavoro cerca di far emergere l'uso violento che Bene faceva degli strumenti di comunicazione, in questo caso la carta stampata.

Pur sottraendosi al dialogo, al confronto, Bene andava affermando che l’unica verità del discorso è l’ esperienza stessa del suo errore. Rifiutando la normale dialettica, svelava l'ipocrisia del linguaggio, l'assoluta falsità di ogni mediazione. Medium, invece lui, di un alto discorso.

 

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