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Il Vigne Museum è un museo all’aria aperta concepito nel 2014 da Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavèle, per il centenario di Livio Felluga.
In questi giorni su tutti i social networks non fa che girare l’hashtag #lovewins, in onore del passo storico degli Stati Uniti in merito alle unioni omosessuali, legalmente riconosciute in tutto il paese a stelle e strisce dallo scorso 26 giugno 2015, facendo così diventare gli USA il 21esimo paese al mondo che riconosce ufficialmente il matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso.
Una giornata storica, che segna l‘inizio di una possibile rivoluzione nel mondo intero, simbolo di uguaglianza e libertà di scegliere di amare chi si vuole. Tutto il popolo del web ha deciso di omaggiare questa decisione d’oltre oceano modificando la propria foto del profilo con i colori dell’arcobaleno, gli stessi della bandiera della pace che è simbolo del movimento di liberazione omosessuale.
L’amore tra persone dello stesso sesso, tuttavia, esiste da sempre, fin dai tempi dell’antica Grecia, dove addirittura non era nemmeno considerato uno scandalo, anzi era al pari dell’eterosessualità. Si trattava di una vera e propria ricerca del bello, quindi era del tutto indifferente se l’oggetto dell’amore di qualcuno fosse un uomo o una donna.
Si potrebbe pensare che in seguito qualcosa sia andato storto, eppure non è proprio così. Il fotografo francese Sebastien Lifshitz, infatti, ha realizzato un progetto originale e dal sapore del tutto delicato. Si tratta di una raccolta di foto, recuperate nei suoi viaggi non senza difficoltà nei vari mercatini delle pulci, che ritraggono la vita intima di coppie omosessuali negli anni ’50, periodo in cui questo argomento era senza dubbio un tabù.
Scatti unici, preziosi e rari che mostrano come in realtà, anche se “di nascosto”, l’amore è amore, in qualsiasi forma esso si presenti. Donne vestite da uomini, uomini ballerini vestiti da donne, che importa? Quel che salta subito all’occhio è lo sguardo sereno e felice di queste persone, che adesso, negli Stati Uniti, sarebbero state libere di esprimere a pieno questo loro sentimento, senza fare del male a nessuno, semplicemente godendosi una vita serena con la persona che hanno scelto.
“Il rischio era comunque alto anche soltanto facendo sviluppare il rullino, ma questo non ha fermato le coppie e la loro voglia di amarsi”, come afferma lo stesso Sebastien Lifshitz, che nel 2013 ha anche vinto il premio Cesar con il film “Invisibili”, presentato anche tra le proiezioni speciali del 65esimo festival di Cannes.
È ovvio che ognuno è libero di esprimere il proprio parere ed è libero di avere una propria opinione, ma nessuno ha il diritto di imporre a qualcun altro un proprio modo di essere, facendolo passare come unico e universale e anche quando questo è stato fatto, in passato, i risultati sono comunque stati a favore della libertà dell’individuo, come dimostrano queste foto.
“Un inno alla libertà, dove l’amore e la felicità sono presenti senza ferite”, dichiara l’artista e a vederle, immediatamente, si capisce il perché di queste parole. Queste foto hanno ispirato il documentario citato prima, poiché il regista, dopo averle osservate, si è appassionato alle storie dei protagonisti, decidendo così di girarvi un documentario a riguardo. Adesso la decisione di pubblicarle, per rendere partecipi tutti di questa realtà triste, tinta di colori cupi e nascosti, ma con stralci di serenità e passione, rappresentativa di tutti coloro che hanno trovato un posto nel mondo, a prescindere da quello che gli altri pensano.
Adele Di Giovanni
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Sicuramente l’ottima performance di Fabrizio Bentivoglio e di Valeria Bruni Tedeschi ma anche l’assoluta capacità di Virzì di trasformare la storia di un dramma americano in una commedia all’italiana amara e cruda di quelle che si vedano negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso.
I personaggi sono goffi, maldestri, brutti e volgari. Le donne sono solo le controfigure degli uomini e i protagonisti più giovani sono il frutto dei loro insopportabili, ambiziosi e miserrimi genitori.
Chi va a vedere Il capitale umano molto difficilmente uscirà dalla sala pensando: “ma io non sono così, i miei figli non sono così, i miei genitori non sono così”. E probabilmente è vero!
Perché Virzì a suo modo esagera, amplifica, barocheggia. Come faceva a suo tempo Moliere con la società del tempo o più addietro i drammaturghi dell’antica Grecia.
L’attuale società è fatta sì di gente come il cinico imprenditore brianzolo e della sua stupida moglie, del mediocre agente immobiliare che vuole emergere in società e farsi invitare alle feste in piscina, di ricchi e viziati rampolli che non conoscono il dolore del lavoro precario e del mutuo trentennale per acquistare due vani ma la società attuale nasconde questa gente anche molto bene.
Ovvero, Paolo Virzì ci racconta i vizi e le brutture del nostro tempo ma le persone e i fatti che il regista descrive ormai sono occulti. A meno che la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate non li faccia conoscere anche a tutti gli altri.
I ricchi ora fanno finta di non esserselo. Se organizzano feste in piscina nelle loro ville non lo urlano ai quattro venti, i rampolli simulano lavoretti stagionali per giustificare l’acquisto di potenti macchine sportive. E così Il capitale umano di Virzì racconta davvero quello che succede ma nessuno di noi incontrerà sul serio queste persone. Almeno non ora. Forse, dieci, dodici anni fa sarebbe stato ancora possibile. Ma adesso non più. Perché anche i ricchi, gli arrivisti, i cinici e gli egoisti un po’ nei giorni attuali si vergognano.
Della pellicola di Virzì allora resta soprattutto la capacità del regista di avere costruito una tragicommedia all’italiana dove ancora una volta e come nelle migliori tradizioni la vittima è un pover’uomo con un lavoro mediocre che torna a casa in bicicletta di notte e che perde la vita a causa di un’incosciente, prepotente alla guida di un suv.
Il resto è la solita Italietta del 1950.
Quante forme ha la violenza, e in quanti modi la si può declinare?
La risposta non è scontata soprattutto guardando Miss Violence, l’ultima pellicola del regista greco Alexandros Avranas, in uscita nelle sale italiane dal 31 di ottobre.
Nel film di violenza reale, cruda e fisica non c’è ne è affatto. Non si ci sono scene dure, non ci sono scontri fisici di nessun genere e anche i “mostri” presentati e descritti dall’autore sono persone comuni, di buone maniere, appartenenti alla buona società ed economicamente agiate.
La violenza descritta nella pellicola di Avranas è talmente sottile, psicotica, emotiva e difficile da comprendere che lo spettatore è scioccato in maniera sublimale senza comprendere realmente perché. Certo, il motivo reale e apparente c’è. Il suicidio di una ragazzina di undici anni.
Ma questa è l’unica scena brutale di tutto il film. Quella davvero sconvolgente. Il percorso per arrivare alla decisione estrema di Angeliki è il vero orrore, il buio dell’anima che sembra appartenere a tutti i componenti della sua famiglia, la violenza estrema che inchioda lo spettatore e che lo devasta fino all’ultimo fotogramma.
Nella famiglia di Angeliki tutto sembra andare nel migliore dei modi. Una benestante famiglia borghese in cui i membri hanno ruoli diversi ma collegati, dove tutto è all’apparenza perfetto e normale, se non fosse che Angeliki il giorno del suo undicesimo compleanno, si suicida buttandosi dalla finestra. E lo fa dopo aver spento, con aria serena e con il vestito della festa, le candeline sulla sua torta, circondata da partenti e familiari. Allo spettatore, la tragedia viene annunciata vagamente e velocemente solo dalla sguardo e dal sorriso della bambina che racchiude tutto il dramma e lo sconforto della sua vita. La reazione della famiglia a questa incredibile tragedia è misurata e cauta e fotogramma dopo fotogramma il regista svela l’inferno privato vissuto dalla bambina nei suoi pochi e intensi undici anni di vita, un inferno che sembra lambire e coinvolgere anche gli altri membri della famiglia. E si comprende che la pulizia del perbenismo borghese e la normalità che il patriarca mantiene è solo una patina.
Il problema di Miss Violence però rimane la scarsità delle doti emotive, sentimentali e passionali dello stesso regista. Alexandros Avranas confeziona una pellicola psicologica ma senza patos che nelle sue intenzioni dovrebbe coinvolgere solo gli strati più profondi e sensibili dello spettatore senza grandi colpi di scena o effetti speciali ma che non riesce neppure in questo.
La sterilità della sua regia, i movimenti di macchina sperimentali e troppo colti, la narrazione filmica che non lascia spazio ai protagonisti fanno sì che lo spettatore si perda completamente tra i cambi di scena e quello che solo il regista vede sul serio.
Miss Violence così diventa un diario quasi privato di Avranas che usa la pellicola come una sorta di diario di bordo personale per descrivere la propria visione della società attuale. Lui, greco di origine e di cultura è come se in un certo qual modo imbastisse il film di riferimenti e fotogrammi sulla difficile situazione sociale e umana che vive il suo Paese in questi ultimi anni.
Ma lo fa nella maniera più sbagliata e sterile possibile.
Infine, sembrerebbe che la storia di Angeliki sia basata su un fatto di cronaca davvero accaduto in Germania, un orrore reale che diventa orrore cinematografico.
Forse, se la sceneggiatura fosse stata originale o pura finzione cinematografica qualcosa della pellicola di Avranas si sarebbe potuto salvare, ma così c’è solo da riflettere sulla psiche del regista e sulla sua volontà insana di condirla con gli spettatori.
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