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È mancata lunedì 2 marzo all'età di 89 anni, Bettina Grazianitop model francese musa di Hubert de Givenchy, Dior e Jacques Fath, protagonista delle passerelle di Parigi negli anni '50.

Ci sono divi che non possono invecchiare e muoiono giovani. Basta pensare alla cosiddetta “maledizione dei 27 anni” che prende il nome dall'età in cui si sono spente stelle della musica come Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse e tante altre, o al terribile schianto che nel '55 si porta via il 24enne James Dean. In tutti questi casi la morte precoce è l'ultimo atto di vite spremute all'eccesso.

Marilyn è una storia a parte. Per quanto tragica, la sua fine a 36 anni non è l'epilogo di un'esistenza inquieta (che pure ha avuto), ma l'evento che rende la sua immagine eternamente giovane: un'icona di sensualità ingenua penetrata nella memoria visiva di tutti e per questo immortale.

Lo intuisce per primo Andy Warhol: proprio nel '62 comincia ad utilizzare la tecnica della serigrafia, e la scomparsa della diva nell'agosto di quell'anno lo induce a riprodurne il volto, tratto da una foto di scena del film Niagara, con infinite variazioni cromatiche (alcune esposte nell'agosto di quest'anno a Rimini).

La testa biondo platino è onnipresente, si separa dal corpo e dalla sua esistenza terrena, diviene uno dei simboli della Pop art, arte della gente comune; icona a disposizione di tutti, che vive al di là della Marilyn reale, come dice, un po' sprezzante, Warhol stesso: “Per me la Monroe non è altro che una persona fra tante altre. E riguardo alla questione se dipingere l’attrice in toni di colore così vivaci rappresenti un atto simbolico, posso soltanto rispondere che a me interessava la bellezza: e la Monroe è bella”.

Possiamo aggiungere: Marilyn è un'incarnazione della bellezza senza tempo. La pensa così Bertrand Lorquin, esperto d'arte, che nel catalogo della mostra con l'ultimo servizio fotografico della diva, “The last sitting”, con gli scatti di Bern Stern, da poco conclusasi al Forte di Bard, ha evocato i nudi di Botticelli, Rubens, Velazquez, Goya, Ingres e Manet, per attribuire alle plastiche curve della Monroe un posto nella storia dell’arte”.

La bellezza deve mostrarsi, mettersi a disposizione degli occhi della gente, ha bisogno dello sguardo del pubblico; e nel Novecento Hollywood fabbrica le immagini in cui ognuno può proiettare i propri desideri e vederli prendere forma. Marilyn è perfetta per questo meccanismo, come nessun'altra è mai stata o sarà dopo di lei, anche se, paradossalmente, ha il terrore del palcoscenico.

Per entrare nel mondo del cinema si schiarisce i capelli e si ritocca leggermente il viso, accentuando la morbidezza dei tratti. Il ruolo iniziale non può che essere quello stereotipato e diffuso della dumb blond, la bionda svampita: il suo modo di interpretarlo diventa unico, con quel mix di sensualità e dolcezza che raggiunge l'apice con “Sugar Kane”, la cantante capace di far girare la testa a Tony Curtis in A qualcuno piace caldo.

Ma sin dai primi successi quella parte le sta troppo stretta. Sogna personaggi drammatici, che le diano la possibilità di esprimere le proprie capacità di recitazione. La sua evoluzione invece non consiste nel diventare una grande interprete, ma qualcosa di più: supera lo stereotipo per trasformarsi in un simbolo incarnato.

Sulla scena è in grado di impadronirsi dello sguardo maschile. Il critico Laura Mulvey, nell'analizzare una celebre sequenza di ballo all'inizio de Gli uomini preferiscono le bionde, coglie l'essenza della sua performance: nel primo piano, benché in movimento, riesce a essere perfettamente in posa, come immortalata da un obiettivo fotografico. Questa capacità di esporre la propria bellezza con tale studiata naturalezza resta inimitabile: lo spettatore sogna che Marilyn sia lì solo per lui, dolce e sensuale allo stesso tempo.

Possiamo cogliere questa sensazione nello sguardo di Tom Ewell, rapito dal sollevarsi della gonna dell'attrice nella scena celeberrima di Quando la moglie è in vacanza. Possiamo immaginarla anche in John F. Kennedy, quando gli viene dedicata un'indimenticabile Happy Birthday, Mister President cantata con voce ammiccante in un abito color carne.

Anche Hugh Hefner, padre di Playboy, intuisce da subito l'unicità del suo sex-appeal e acquista i diritti di una foto senza veli dell'attrice, non ancora famosa, per la primissima copia della sua rivista. Poche parole le bastano per evocare intense fantasie: “La notte mi vesto solo di due gocce di Chanel numero 5”.

Questa è Marilyn, immortale al di là della sua vita reale. Sex-symbol nel senso più pieno del termine e consapevole di esserlo: “La gente non mi vede! Vede solo i suoi pensieri più reconditi e li sublima attraverso di me, presumendo che io ne sia l’incarnazione”.

Stare seduti nascosti al buio, guardare le immagini che l'obiettivo, intrufolato oltre le porte chiuse, ruba ad attori compiacenti. La posizione dello spettatore ha sempre qualcosa di voyeuristico, se poi si tratta di un film erotico...

Ecco quindi dieci pellicole dal sapore piccante che si sono ritagliate per vari meriti e curiosità un posto nella storia del cinema.

1933, un industriale austriaco cerca di far scomparire tutte le copie del film girato dalla moglie. Il motivo? Per la prima volta un nudo femminile integrale fa bella mostra di sé sul grande schermo. Le grazie sono quelle di Hedy Lamarr, l'opera si chiama Estasi e racconta di una giovane insoddisfatta dal marito anziano, volgare e tutt'altro che focoso. Eva lo lascia per un ritorno alla natura presso la fattoria paterna, dove incontra il suo Adamo con cui si abbandona alla liberazione delle pulsioni in un'atmosfera di sensualità bucolica.

Italia, primissimi anni settanta: scandali e censure. Nel 1972 esce tra forti polemiche Ultimo tango a Parigi: il famoso panetto di burro rappresenta l'apice del rapporto, solo carnale, tra Paul e Jeanne, privo di sentimenti e di nomi, in un appartamento che lascia il mondo fuori. “Esasperato pansessualismo fine a se stesso”, con queste parole il film viene ritirato dalle sale, a dimostrazione di come la censura abbia ben compreso il senso della relazione tra i protagonisti, troppo scomodo e da cancellare.

Il censore è già intervenuto l'anno precedente, ma per motivi diversi, nei confronti di un altro maestro del cinema italiano: Pier Paolo Pasolini, che trasferisce le novelle del Decameron a Napoli, per la prima parte della sua Trilogia della vita. Qui il sesso assume un significato gioioso: mentre fuori infuria la peste nera, le novelle celebrano la vitalità ingenua e innocente dei corpi, che si fa beffa della morte. Libertà eccessiva per l'epoca: pellicola sequestrata.

Un effetto collaterale del Decameron è il proliferare dei “decamerotici”, film di infimo valore ma di grande successo per un pubblico guardone. L'ambientazione medievale offre possibilità narrative, quali avvenenti nobildonne oppresse da cinture di castità, mariti gelosi ed ottusi, stratagemmi contadini e clero di dubbia moralità.

Tra tutti il celebre Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972), il cui livello poetico è interamente contenuto nella rima del titolo. La trama non è altro che una serie di pretesti per far spogliare Edwige Fenech e Karin Schubert, intervallati da gag piuttosto fiacche. Ma resta a suo modo un cult.

Nel 1974 arriva dalla Francia un altro notevole successo di pubblico, in confezione raffinata e patinata, Emmanuelle. L'immagine-manifesto di Sylvia Kristel nuda e svogliata su una sedia di vimini racchiude gli elementi del film: una giovane dagli occhi trasparenti, oziosa e insoddisfatta, che si apre alle emozioni offerte dal connubio erotismo-esotismo. L'attrice resterà poi imprigionata in un'inutile serie di sequel.

1975, Russ Meyer lo definisce “la sintesi di tutti i miei film”, è Supervixens: eccessivo e strabordante come le forme delle sue eroine, una sequela di scene di sesso e violenza tanto ingenue e inverosimili da risultare innocue, nel tipico stile cartoonesco del regista californiano, concluse da un significativo “That's All Folks!”. Pop e pulp.

L'anno successivo, a Cannes, i critici si entusiasmano per Ecco l'impero dei sensi, opera rigorosissima del nipponico Nagisa Oshima, che trae da una storia vera il tragico estraniarsi dal resto del mondo di due amanti in un susseguirsi ossessivo di rituali d'accoppiamento sempre più estremi, nel tentativo di impadronirsi letteralmente dell'altro. La macchina da presa aderisce ai corpi, mentre Thanatos, compagna di Eros, resta in agguato.

Ritroviamo l'eterno binomio Amore-Morte ne La legge del desiderio (1987), pellicola che decreta il successo in Italia dello stile trasgressivo ed eccessivo di Pedro Almodòvar, poi mitigato e maturato nel corso degli anni. Un intreccio di amori omosessuali impossibili ad altissimo tasso di passione, in cui ognuno è trascinato dalla legge che dà titolo al film, a partire dal protagonista Pablo, regista gay, evidente alter ego dell'autore.

Non è certo la sua opera migliore, ma è l'ultima (e Kubrick è sempre Kubrick), Eyes Wide Shut (1999). La coppia Cruise-Kidman viene messa a nudo, la solidità della loro relazione abitudinaria, scossa dall'esplorazione della trasgressione, reale o immaginaria che sia. Il sesso come apparenza, ma anche come turbamento, ritualizzato in una magistrale sequenza orgiastica con corpi privi di passione.

Per chiudere andiamo prima a Hollywood e poi torniamo in Giappone: non un intero film, ma tre sequenze leggendarie. Per la prima basta un accenno della voce di Joe Cocker, “Baby, take off your coat... real slow”, e subito si materializza l'immagine di Kim Basinger maliziosamente seminascosta da una tapparella: lo spogliarello più celebre del cinema, offerto agli occhi di Mickey Rourke. Stiamo parlando, naturalmente, di 9 settimane e ½ (1986).

Per la seconda, visto che lo spettatore è sempre un po' voyeur, ecco gli sguardi bramosi e i respiri sospesi dei detective che ispezionano l'accavallamento di gambe di Sharon Stone: il meglio di Basic Instinct (1992).

L'ultima scena è quella delle pratiche sadomaso di Ai (Miho Nikaido) in Tokyo Decadence (1991). Tratto dal romanzo Topâzu del regista e scrittore Ryu Murakami, la pellicola è un tuffo nei più estremi costumi sessuali nipponici, brutalmente mischiati allo squallore di una megalapoli in disfacimento.

 

I 10 film western che hanno fatto la storia del cinema

John & John. Ford dietro la macchina da presa, Wayne davanti all'obiettivo: senza di loro il western non sarebbe lo stesso. Ecco le tre pietre miliari.

Il prototipo: Ombre rosse (1939). Un microcosmo di varia umanità costretta nello spazio angusto di una diligenza: per ultimo sale Ringo, cowboy ingiustamente accusato di omicidio. Dentro l'abitacolo, la rigidità di un sistema coi suoi pregiudizi. Fuori, la Monument Valley, i cieli solcati da minacciosi segnali di fumo, presagio per lo spettacolare attacco degli Apaches. Ford definisce i canoni estetici del genere e celebra la frontiera come espressione della vera e multiforme natura umana, liberata dai vincoli sociali.

Il vertice: Sentieri selvaggi (1956). Ethan Edwards alla ricerca di due ragazzine rapite dai Comanches dopo il massacro della famiglia. Capolavoro assoluto della storia del cinema, da rivedere per ammirarne i mille dettagli simbolici: il dramma di un eroe sconfitto, con un equilibrio perfetto tra panoramiche spettacolari e minuta descrizione delle sfumature psicologiche. Un intreccio tra uomo e ambiente, tra attesa e azione come solo il western...

La sintesi: l'uomo che uccise Liberty Valance (1962). Il senatore Stoddard racconta la vera storia del duello col bandito del titolo. Un film che corre sul filo della memoria e delle differenze incarnate da due attori-simbolo: James Stewart, mite custode della legge scritta, avamposto dell'Est, della nuova America civilizzata. John Wayne, duro e integerrimo, ancorato ai valori della frontiera, alla soluzione personale delle ingiustizie, pistola alla mano. Tutto in una sola frase: “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”.

Restiamo con James Stewart: il sodalizio col regista Anthony Mann porta a 5 film, trasferendo negli spettacolari paesaggi americani la comune passione per il teatro classico. L'ultimo è L'uomo di Laramie (1955). Un ex-capitano dell'esercito vuol fare luce sull'uccisione del fratello: si scontrerà con la brutalità di un mondo in cui il diritto cede alla sopraffazione. L'uomo giusto è costretto a combattere il caos con la violenza. Il suo antagonista è un Re Lear del West, patriarca che vede sfumare il desiderio di pacificazione dopo una vita di lotta per accaparrarsi la terra.

Legge e violenza, ancora. In Mezzogiorno di fuoco (1952) Gary Cooper è l'ex sceriffo Cane, che ha riportato l'ordine nella sua cittadina. L'arrivo dei banditi lo indurrà a scegliere, senza altro obbligo del senso morale, di difenderla ancora una volta, mentre gli abitanti, uno a uno, lo abbandoneranno. Una pellicola tesissima, nella quale l'azione in tempo reale e il paese svuotato accrescono minuto dopo minuto l'angoscia per l'eroe, profondamente umano, solo di fronte al destino che ha deciso di affrontare, fino al duello finale.

Cosa sarebbe il western senza il duello? Il migliore ha davvero qualcosa in più: è il “triello” de Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Tre pistoleri accomunati dalla brama di denaro, epicamente interpretati da Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef. Oltre 7 minuti senza dialogo, la tensione che sale spasmodica grazie all'indimenticabile tema musicale di Ennio Morricone e alla regia di Sergio Leone, che alterna in un montaggio sempre più serrato campi lunghi, dettagli di sguardi penetranti e mani che accarezzano nervose il calcio delle colt: chi sparerà per primo e a chi?

Nel 1969 arriva l'abbandono dei canoni classici. Con Il mucchio selvaggio Sam Peckinpah reinventa visivamente il genere. Il ralenty amplifica la crudezza delle immagini, il montaggio frenetico sconvolge in un turbine impetuoso, gli spari lacerano i corpi, il sangue erompe vivido, la violenza diventa denominatore comune che impedisce di distinguere eroi: solo uomini che tentano di sopravvivere. Come il bandito Pike e i suoi compari inseguiti dal bounty-killer ed ex-amico Deke, fino all'epilogo messicano.

Nello stesso anno, ma con tutt'altro stile, viene girata la storia di Butch Cassidy e dell'amico Sundance Kid. Banditi perennemente in fuga, liberi e scanzonati, anarchici come il tono di questo western pieno d'ironia e vitalità, perfino lirico, affidato al magnetismo e alla complicità dei due protagonisti: Paul Newman e Robert Redford. Celeberrima la colonna sonora.

Un sussulto improvviso ci arriva nel 1990 grazie a Balla coi lupi di Kevin Costner, storia di un soldato che va a vivere in mezzo ai Sioux, imparando a conoscerli e a comprenderli. Accurato nella descrizione e al tempo stesso denso di pathos, un “western dalla parte degli Indiani”, in cui non sono nemici selvaggi, sulla scia di precedenti illustri come Soldato blu e Il piccolo grande uomo.

Nel 1992 Clint Eastwood torna a impugnare la colt. E anche la macchina da presa. Ne Gli spietati è William Munny, ex pistolero sanguinario vinto dalla morte della moglie che l'ha redento. Riprende le armi per soldi. Non c'è traccia di eroismo in quest'opera crepuscolare e intrisa di nostalgia, in cui violenza e morte emergono nella loro ottusa oscurità.

Solo chi ha vissuto il mito può celebrarne la fine.

 

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