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Venerdì 27 marzo alle ore 18 presso la biblioteca dell' Archiginnasio di Bologna, Artelibro, famoso festival del libro e della storia dell'arte, presenta "Michelangelo. La pietà vaticana".
Nerospinto vi racconta l'Autunno Americano del Comune di Milano attraverso un viaggio inconsueto alla scoperta della mostra di Andy Wharol a Palazzo Reale. Gli ultimi anni hanno visto un generoso proliferare di mostre riservate al re della Pop Art in un rinnovato interesse generale. Fino a poco tempo fa ad esempio era possibile visitare gratuitamente una piccola esposizione dedicata all'artista presso il Museo del 900. Da ricordare anche "The Andy Wharol Show" del 2004-2005 con cui la Triennale celebrava l'eclettismo dell'artista attraverso un approccio multimediale.
Cosa distingue allora questa nuova esposizione dalle precedenti e cosa le attribuisce fascino ed interesse?
La prima risposta che mi viene in mente è di sicuro il taglio personale e fortemente biografico che è stato dato al percorso espositivo. Le opere fanno parte della collezione di Peter Brant, amico di Wharol e curatore stesso della mostra, si tratta di 160 tra le più significative creazioni dell'artista Pop per eccellenza. L'esposizione è caratterizzata per l'evidente tentativo di una maggiore vicinanza all'uomo rispetto al personaggio.
Wharol; all'epoca Andrew Warhola Jr, figlio di immigrati di umili origini, nato a Pittsburgh in Pennsylvania, il 6 agosto del 1928, dove trascorre un'infanzia in condizioni economiche drammatiche, divenuto il celebre artista noto al pubblico che tutti conosciamo, crede in un'arte che sia "Pop" e cioè "Popular" - Adatta a tutti.
A riprova della concretizzazione delle teorie estetiche del filosofo W. Benjamin sull' "Opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" del 1936, per Wharol non vi è più un'arte aulica, da contemplare, un'artista che sia demiurgo e creatore, ma nel mondo nuovo dell'America degli anni 60, nella Società dei Consumi di massa, l'artista deve essere soprattutto un comunicatore; deve cioè saper rendere semplice ciò che altrimenti potrebbe risultare complicato, abbassare il concetto di aura ed unicità dell'opera d'arte fino al punto da sottometterlo all'ideale della fruizione di massa. Ė la democrazia dei consumi: un ricco ed un povero si trovano ormai ad acquistare gli stessi prodotti; una lattina di Coca Cola è sempre la stessa, così come la famosa Zuppa Campbell's (1962) riprodotta in serie dall'artista.
Influenzato dal New Dada e con poca simpatia per Pollock e l'espressionismo astratto degli Irascibili, per i quali l'arte viene generata da un'esplosione emotiva; l'arte è per Wharol produzione controllata, fredda tecnica e meccanica della riproducibilità, capacità di fare business. E il business per Wharol è tanto importante da portarlo a fare del lavoro artistico una specie di produzione in "fabbrica"; The Factory era il nome dello studio originario di Andy Wharol a New York City tra il 1962 e il 1968, e con lo stesso nome sono conosciuti anche i suoi studi successivi. Nello studio i collaboratori di Warhol producono serigrafie e litografie. Nei giorni in cui diviene famoso Warhol lavora giorno e notte ai suoi dipinti. L'uso di serigrafie è finalizzato a produrre immagini in massa, allo stesso modo in cui le industrie capitalistiche producono in massa prodotti per i consumatori.
"Don't worry there's nothing about art that a person can't understand" Rassicura Wharol.
"Niente di complicato e difficile nell'arte, che l'uomo moderno, l'uomo qualunque, non possa arrivare a comprendere". Una straordinaria democratizzazione del concetto di fruizione artistica, figlio della società industriale, in cui la produzione avviene in modo meccanico - in serie - così, per Wharol, nell'arte come nella vita, l'accessibilità prevale sull'esclusività. Da qui, i modelli della sua arte; la pubblicità, il fumetto, quei divi del cinema e quelle celebrities riprodotte a ripetizione che sarebbero divenute delle icone.
In esposizione troviamo Liz Taylor, le sue celebri Marilyn, ed ancora, del 1963 "Trenta sono meglio di una" che ha come soggetto la Monna Lisa, che si ripete in maniera sequenziale in stile foto-tessera. Ed inoltre la riproduzione di foto segnaletiche di ricercati e criminali. Wharol gioca e si diverte a ricordarci la sua naturale propensione per un artista-macchina, che non inventa ma riproduce, che non interpreta ma ripete all'infinito.
Sono del 1964 "Le 12 sedie elettriche" che fanno di uno strumento di morte un motivo decorativo, così come "Mao", che ripreso in serie nel 1973 sembra più un soggetto da carta da parati che un leader politico.
E le opere dedicate ai dollari, già dal 1962, a dimostrare che un artista non deve temere di produrre business ma anzi deve esser fiero dei propri risultati economici. Facile leggervi il riscatto personale da un'infanzia in povertà.
"Making money is art and working is art and good business is the best art" ricorda.
Del 1964 il "Self-Portrait" - autoritratto di un uomo che ci tiene ad essere "la cosa giusta nel posto sbagliato o la cosa sbagliata nel posto giusto" in modo che qualche cosa di straordinario e inaspettato accada. L'autore ha un'indubbia fascinazione per ciò che è artificiale (il travestimento in alcuni autoritratti con occhiali e parrucche), ama definirsi superficiale; egli sviluppa un'estetica della rappresentazione grazie a tecniche quali la serigrafia che rimpiazzino l'idea di stile con quella di copia ad alta diffusione e riproducibilità. L'amore per i soggetti comuni, banali, diffusi, viene celebrata in riferimento al fumetto con "Dick Tracy" poliziotto leale con i buoni ma duro con i criminali ed eroe della cultura popolare americana. La passione per il cinema si mostra con "Il Bacio (Bela Lugosi)" scena tratta dal film Dracula del 1931. L'interesse per le celebrities - feticcio di quelle stampate sulle figurine e collezionate dal Wharol bambino, è ripresa tra gli altri in "Elvis rosso"(1962).
Sebbene si definisse "superficiale" c'è un lato nell'artista che non pare esserlo affatto; lo ritroviamo ad esempio nei suoi "Flowers Large Flowers" del 1964, in cui la bellezza del fiore si accompagna alla consapevolezza della tragedia della sua morte.
Tra le ultime opere esposte in ordine cronologico sono di particolare bellezza il ritratto di "Jean Michel Basquiat" del 1982, le grandi tavole decorative che riprendono, giocando sulla simmetria, le famose macchie dello psichiatra Rorschach, e "l'ultima cena" del 1986, esposta a Milano nel 1987, che segna la chiusura della carriera dell'artista poco prima della sua morte. "L'ultima cena" e "La Monna Lisa" sono per Wharol un'ulteriore tappa alla ricerca delle celebrities, quali celebrità nel campo della storia dell'arte che riprodotte divengono patrimonio alla portata di tutti. D'altronde la fama stessa è alla portata di tutti secondo Wharol: "Ciascuno avrà i suoi 15 minuti di celebrità".
Wharol pare interpretare perfettamente le tendenze estetiche del suo tempo, comprende la bellezza e l'eccezionalità, ma anche la tragedia sottesa, di ciò che si ripete nella vita quotidiana, sempre uguale ma pure diverso, si interessa al valore e all'attrazione generata dall'oggetto di uso comune, dal bene di consumo, dalle immagini pubblicitarie, guardando il mondo con quella "ingenuity" che è sì genialità ma è anche purezza di sguardo, curiosità, capacità di stupirsi, ingenuità simile a quella di un bambino di fronte alle cose del mondo. Questa è la forza di Wharol, la sua vicinanza, la potenza della sua opera. Egli ha saputo vedere la bellezza anche in una scatola di zuppa, o in una sedia elettrica, ora, è forse nella loro edulcorazione che Wharol restituisce agli oggetti ed ai personaggi che ritrae quella forza e quel valore che furono il cuore della cultura del suo tempo e, per certi versi, anche del nostro, in un contesto in cui i mezzi di comunicazione si accavallano, i differenti linguaggi si sovrappongono e siamo bombardati da immagini che ripetono se stesse; fino a portarci ad osservare la copia, di una copia, di una copia, in una costante sensazione di déjà vu.
WHAROL. Dalla collezione di Peter Brant: dal 24 ottobre 2013 al 9 marzo 2014
Palazzo Reale, Piazza del Duomo 12, Milano.
Lunedì: 14.30 - 19.30. Da martedì a domenica: 9.30 - 19.30. Giovedì e sabato: 9.30 - 22.30.
Biglietto: intero 11€/ ridotto: 9,50€
Informazioni: www.warholmilano.it #wharol
Giovanna Canonico
Dal 5 aprile all'8 settembre 2013 il Museo del Novecento di Milano ospiterà Andy Warhol's Stardust, una mostra precedentemente allestita nella Dulwich Picture Gallery di Londra, che offrirà al pubblico un'esposizione di stampe relative ai più celebri nuclei e soggetti dell'artista Pop statunitense, risalenti al periodo compreso tra gli anni 60 e 80 del secolo scorso.
Dalle celebri lattine di zuppa Campell's a Flowers, il percorso si concentra sulla produzione seriale realizzata alla mitica Factory e si propone come un'occasione preziosa per riscoprire le tappe salienti della creazione di Warhol lungo tutto il secondo dopoguerra.
La polvere di stelle evocata dal titolo non si riferisce unicamente alla polvere di diamante utilizzata in molte stampe, ma è la capacità di Warhol di creare icone scintillanti e immortali.
Da Muhammad Alì, a Marilyn Monroe, alle copertine di “Interview”, «i suoi ritratti non sono documenti del presente quanto icone in attesa di futuro», come ha scritto David Bourdon nel 1975.
I volti e i nomi che Warhol rappresenta, esposti in mostra, non appartengono solo a persone: nel ventaglio dei suoi soggetti compaiono anche personaggi mitici - Myths -, eroi dei fumetti e dei cartoni animati per i quali la tecnica, il formato, il taglio dell’immagine e la tavolozza sono i medesimi utilizzati per le persone reali.
Il metodo è lo stesso: una visione orizzontale che non percepisce differenze di trattamento: l’approccio di Warhol uniforma e ridistribuisce i pesi, perché fermarsi alla superficie rende tutti sufficientemente attraenti e, soprattutto, importanti allo stesso modo.
Info su costi e orari:
Lunedì: dalle 14.30 alle 19.30
Da martedì a domenica: dalle 9.30 alle 19.30
Giovedì e sabato: fino alle 22.30
Ingresso: 5 Euro
Andy Warhol's Stardust
Museo del Novecento
Piazza del Duomo, Milano
Iniziamo dai giorni nostri. Partiamo pure dalla fine, andando poi a ritroso, e citiamo il nome di una donna, Lulù, che è anche il nome di un disco. Lou Reed con i Metallica (2011), non è uno scherzo e non so quanti tra i rispettivi fan abbiano gridato allo scandalo. Magari gli adepti del newyorkese hanno addirittura pensato: “Ancora? Dai, basta con queste cose folli, rimani per un po’ te stesso”. Il Problema è che Lou Reed ama questi giochini, desidera ardentemente fare qualcosa di diverso, cambiare e trasformarsi – da solo o grazie ad altri – per creare qualcosa di cui parlare. Sì, perchè le sue molteplici facce non sono state apprezzate da tutti, c’è chi storceva il naso e chi lo avrebbe adorato comunque, anche se avesse deciso di musicare un film Disney.
Lou non arrivò a tanto nemmeno con i Metallica. Forse l’opera più discussa e distante da tutto ciò che ha fatto è stata Metal Machine Music (sottotitolo: An Electronic Instrumental Composition, 1975): cacofonie, distorsioni, rumori e riff messi insieme a differenti velocità. C’è ben poco di melodico o di classic, anche se, in un’intervista a Lester Bangs, il musicista dichiarò che nella cagnara dell’album erano stati inseriti appositamente dei rimandi a composizioni di musica classica. Cosa significa questo lavoro? Si tratta di una voglia di mandare a quel paese la casa discografica o i fan che richiedevano sempre le stesse canzoni? La RCA Records ha avuto le sue colpe, è vero, chiedendo al musicista di fare un album commerciale (Sally Can’t Dance, 1974) e un Live, in seguito alla pubblicazione di Berlin (1973) imposta da Lou Reed stesso. Berlin risulta essere troppo difficile, anarchico, triste e non ha riscontri di pubblico e di critica anche se si tratta di un lavoro elevatissimo, ovvero uno dei dischi fondamentali di Lou Reed.
Ma cosa ci fu prima di questi album e dopo che Lou Reed ebbe abbandonato i Velvet Underground (durante le registrazioni di Loaded, 1970), per ritirarsi in disparte a “leccarsi le ferite”? Dopo il suo primo e omonimo disco da solista (un flop), la stessa RCA gli presentò David Bowie (divenuto famosissimo all’epoca), proponendogli di farsi produrre il disco con Mick “Ronno” Ronson: due pesi massimi della musica, in pieno periodo glam. Lou accettò, l’affinità con loro cresceva di giorno in giorno e iniziò anche a collaborare con i musicisti (assolutamente degli estranei per lui, non aveva più un gruppo al suo fianco). Lou Reed cambiò in qualcosa di più glam, molto più vicino all’immagine del periodo di Bowie: trucco pesante giapponese, contorno occhi neri e sbrilluccichini vari.
Siamo nella Londra degli anni settanta ma il mondo della Factory e la persona di Andy Warhol non scomparirono, anzi, furono d’ispirazione per i testi delle canzoni di Tranformer (1972). La copertina del disco è un chiaro riferimento al decadentismo del periodo, i testi portano alla luce alcune zone, alcuni personaggi e delle tematiche che difficilmente resisterebbero in classifica: Lou assieme ai due produttori riuscì a fare questo ed altro. “Vicious” è nata da una richiesta di Warhol che voleva un testo per parlare del vizio e del rapporto tra amanti, un rapporto sado dove si picchia il partner con un fiore (cantato ambiguamente su un rock gaio: Vicious, you hit me with a flower, You do it every hour oh baby, you’re so vicious); “Andy’s Chest” è una filastrocca piena d’amore e d’odio, dedicata sempre a Warhol dopo che rischiò di morire per mano della femminista Valerie Solanas. La jazzy song “Perfect Day” è perfetta sul serio, tanto da ritornare in classifica, al numero uno, anche dopo venticinque anni (nel 1997, fu scelta dalla BBC come singolo in favore dell’UNICEF e cantata da diversi artisti).
“Satellite of Love” è la ballata glam per eccellenza, David è straordinario e il suo accompagnamento vocale è da brivido; il testo è ironico e beffardo e parla fondamentalmente di gelosia, ma di quella pesante. “Make Up” è l’inno al travestitismo sostenuto dalla tuba di Herbie Flowers e da queste semplici parole: Now, we’re coming out of our closets, Out on the streets. “New York Telephone Conversation” è in presa diretta: assieme alla voce di Reed c’è quella di Bowie e l’atmosfera è frivola, quasi si fosse in un cabaret, dove le persone non smettono un secondo di chiacchierare sui pettegolezzi del momento.
“Walk On The Wild Side” è il singolo, e un pezzo enorme nella sua semplicità, con un contrabbasso e un basso che, assieme a una batteria suonata con le spazzole, formano lo scheletro portante e ritmico. Lou Reed doveva fare delle canzoni per adattare il libro di Nelson Algren, A Walk on the Wild Side (1956), che Andy Warhol voleva trasportare a teatro; non se ne fece più nulla ma a Reed rimase questo brano che raccontava di spacciatori, attori, travestiti e drogati che giravano attorno alla Factory. Insomma, ha fregato tutti anche la BBC, che la fece passare parecchio senza capire fino in fondo il testo, forse perché sedotta dal sax finale di Ronnie Ross: una bomba.
Che sia stato tutto un compromesso, un travestitismo per diventare famoso o che sia solo l'inizio dell'evoluzioni di Lou Reed, cosa importa? Lui stesso, davanti alle telecamere disse: “E’ solo un album. Sono solo canzoni su un semplice album. Si fa un album e si ha tutta la vita d’avanti”.
Andrea Facchinetti
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