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Dal 24 marzo al 3 aprile al Piccolo Teatro Strehler di Milano Claudio Bisio sarà protagonista di "Father and son", un introspettivo spettacolo tratto dai libri di Michele Serra Gli sdraiati e Breviario comico.
"Father and son" è il soliloquio di un padre che, sospeso tra ironia e dolore, racconta il suo rapporto col figlio adolescente. Un giovane d'oggi che sembra appartenere non solo ad una differente generazione, ma provenire da tutta un'altra galassia, dato che i due non riescono a comunicare in nessun modo.
Un uomo che senza vergogna parla della sua vita fatta di conquiste e sbagli, ma soprattutto permette al pubblico di riflettere su un tema molto più ampio e importante: l'andamento della società contemporanea e il futuro dei figli. I giovani d'oggi si nascondono in felpe larghe, jeans attillati e cellulari nei quali cercano di evadere da un sistema che è sempre più spietato e non offre loro nulla, se non disoccupazione e sogni infranti. I padri, a loro volta, cercano di capirli ma con molta fatica, essendo figli di una generazione passata con idee completamente diverse di lavoro e libertà.
Per la regia di Giorgio Gallione uno spettacolo dell'Archivolto di Genova che strapperà risate ma anche momenti di riflessione, saltando in maniera brillante da scene comiche a tragiche, con dialoghi sempre accompagnati da un sottofondo musicale.
PREZZI:
Platea - intero € 33,00/ ridotto card Gio/Anz € 21,00 Balconata - intero € 26,00/ ridotto card Gio/Anz € 18,00
INFO:
tel. 848 800304
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Sabato 21 dicembre il Q21 si accende per una serata imperdibile! Una notte di follia e' quello che ci vuole, per non pensare, per ritrovarsi e lasciarsi andare... Una notte fatta di musica e gente dolce , unica e libera da ogni limite , un incontrarsi e sentirsi uniti di nuovo come una volta, immersi nei ricordi e accarezzati dalle sensazioni provocate dalla musica di 5 splendidi dj....
In ROOM 1 con Viola Violetta
EX VOTO - DARK NIGHT
diamo spazio alla creativita' musicale di alcuni particolari personaggi, ognuno differente , ognuno unito da uno stesso volere, quello di trasmetterci attraverso la musica delle emozioni e di riunirci nuovamente...Eccoli!!!Vi sconvolgeranno durante tutta la notte...
SPECIAL GUEST DJANE SIOUXSIRA & DJ TOM-I (Zurigo) https://www.facebook.com/ira.montic...
SPECIAL GUEST DJ TOTEN TANZ (ИEGATIVE) https://www.facebook.com/negativege...
DJ SKULL (Torino) https://www.facebook.com/elvio.skul...
DJ LENZ (Vicenza) https://www.facebook.com/pozzo.pend...
FOTO A CURA DI: NIKITA ROSA SELVAGGIA https://www.facebook.com/NikitaPhot...
ALESSANDRO RIDOLFO https://www.facebook.com/alessandro...
ATTIMI SU PELLICOLA (Viola Violetta) https://www.facebook.com/attimiSuPe... IN ROOM 2
EVENTO LA DOULEUR EXQUISE
L’indagine del sottile legame esistente tra dolore e piacere non ha ancora avuto fine. Perché alcune volte cerchiamo il dolore? Il sadico piacere di farci del male? Il dolore può essere squisito?
Un viaggio metaforico tra sonorità electro-pop sperimentali e cold wave, post-punk e new romantic, sfumando i contorni del dark per presentare un cromatismo di note dal gusto squisitamente gotico.
DJs > Dj DONUT / BLACK CANDY / Dj NICO
-:-:- DURING THE NIGHT -:-:-
Il bar della room uno diventerà un ABSINTHE BAR dove degustare assenzio puro, assenzio flambè, FROZEN Absinth, MOJITO BLACK ed ABSINTHE MOJITO... ...per renderci ancora più vicini al piacere.
Performance & Art: installazione/set fotografico di Melancholie mit Monster . Pixx di Davide Iacobone ed Alessandro Lecchi.
Degustazione di macaron reglisse all'assenzio di Baketherapy. http://mybaketherapy.blogspot.it/
DRESS CODE: black, total black, leather, make up, glam... c'mon and dress up, bitches! Per informazioni:
https://www.facebook.com/groups/149...
https://www.facebook.com/pages/Q21/...
Q21
Via Padova 21 20127 Milan, Italy
Indira Fassioni
La creazione è un enigma. Spesso non nasce da un'unione, ma da una mancanza, da un buco nero che scava l'anima e rende l'uomo, l'artista, vulnerabile, ferito, un anima nera che si nutre di un fantasma, una presenza che aleggia nell'aria, ma che per qualcuno non è mai esistita.
Per Roger Waters quel fantasma era quello del padre morto nella guerra mondiale quando aveva solo 5 mesi. Eric Fletcher Waters apparteneva alla Compagnia Z, travolta dai cingolati tedeschi in uno spicchio di campagna italiana ai bordi di un fiume che specchiava il sole nato una mattina di febbraio nell'anno 44. Un corpo mai ritrovato, un'anima sacrificata alla sporca guerra, un corpo dimenticato nell'oblio della storia.
Un dolore enorme, quello del bassista dei Floyd, che sublimato ha generato capolavori della musica contemporanea, fiori splendidi, dolorosi e cupi. Come testimonia la canzone When the tigers broke free che apre il film The Wall (ma che non comparì nell'album), dedicata al padre scomparso, che tradotta fa più o meno così:
E il vecchio Re Giorgio mandò alla mamma una lettera
quando seppe che papà era morto
era, ricordo, sotto forma di pergamena,
con la foglia d'oro e altro
ed io la trovai un giorno
nascosta in un cassetto di vecchie fotografie
ed i miei occhi si inumidiscono ancora a ricordare
Sua Maestà firmò
con il suo sigillo di gomma
L'oscurità avvolgeva tutto
quando le tigri irruppero ardite
e nessuno della Compagnia Reale Fucilieri C sopravvisse
furono tutti abbandonati
la maggior parte di loro morti
gli altri morenti
ed è così che l'alto comando
portò il mio papà via da me
La storia spesso è crudele, spietata, ma dagli epiloghi imprevedibili e inaspettati. Ora le domande si placano, trovano risposta. Roger Waters ha scoperto dove e come sparì il sottotenente Eric Flechter Waters grazie alla lungimiranza di due persone. Una è il superveterano dell'esercito britannico Harry Shindler, indomito 93enne, trapiantato a Porto d'Ascoli, uno che da 25 anni si preoccupa con rara dedizione di dare una identità a corpi senza nome, di ricostruire piccole-grandi storie lacerate dall'oblio.
L'altro è il suo amico Emidio Giovannozzi, già responsabile della libreria Rinascita di Ascoli Piceno, demiurgo della piccola casa editrice indipendente Librati. Il vulcanico librario e il vecchio veterano, un sodalizio che è riuscito a stanare e riportare alla luce ricordi di un attimo congelato, una bomba che esplode e poi il silenzio, l'oblio.
Waters non aveva mia rinunciato a scoprire l'epilogo, a dare un colore alla memoria, a colmare quel buco nero. La svolta arriva dopo il ritrovamento di Herry del diario di guerra del comandante del plotone di cui faceva parte il padre di Roger. Subito dopo il certosino lavoro di Giovanozzi ha dato i suoi frutti: incroci tra mappe dell'epoca, ricostruzioni e pazienza. Finalmente qualcuno ha individuato il luogo esatto in cui Waters padre perì sotto il fuoco nemico.
Un fazzoletto di campagna al bordo di un torrente nel territorio del Comune di Aprilia. Proprio dove verrà collocata una targa in memoria di Eric Fletcher Waters e di tutti i caduti alleati dei quali non sono mai state trovate le spoglie. E sulla riva di quel torrente, il prossimo 18 febbraio ci sarà anche Roger. Lo ha promesso al suo nuovo amico Harry al quale ha donato una poesia. Questa.
Quando il vento falcia le messi/
E gli uomini validi cadono/
E i bimbi impauriti e increduli si rannicchiano nelle braccia tenere delle madri/
A proteggersi dalla lama incurante dei banditi/
Mio padre, ora distante/
Ma vivo, e caldo e forte/
In una bruma uniforme tabacco/
Parla./
Figlio mio, dice./
Non opporti al dolore del tuo lutto/
Ma affilane e appuntane la lama./
Che /
Tu non sfugga mai/
Obnubilato, crudele,/
A sfide ardue da sostenere./
Che prezzo ha un figlio?/
Quale?/
Il tuo o il mio?/
Questo a casa?/
L’uccellino implume che ingolla scodelle di vermi di pasta/
Oppure/
Quello in tv, morto e sgranato in qualche fosso dei Balcani/
Non riuscire a capire che il lutto di altri padri/
Nega i legami forgiati in sangue filiale/
E il vessillo lucente passato da uomo a bambino/
Al posto d’onore, forte, privo di meschinità e rancore./
Quindi/
Raccogli le tue lacrime, dice mio padre/
Raccogli in una coppa quella medaglia di sale/
Sgorga da un unico fiume/
Su quel fiume figlio mio/
Mi sono giocato la vita.
Quante forme ha la violenza, e in quanti modi la si può declinare?
La risposta non è scontata soprattutto guardando Miss Violence, l’ultima pellicola del regista greco Alexandros Avranas, in uscita nelle sale italiane dal 31 di ottobre.
Nel film di violenza reale, cruda e fisica non c’è ne è affatto. Non si ci sono scene dure, non ci sono scontri fisici di nessun genere e anche i “mostri” presentati e descritti dall’autore sono persone comuni, di buone maniere, appartenenti alla buona società ed economicamente agiate.
La violenza descritta nella pellicola di Avranas è talmente sottile, psicotica, emotiva e difficile da comprendere che lo spettatore è scioccato in maniera sublimale senza comprendere realmente perché. Certo, il motivo reale e apparente c’è. Il suicidio di una ragazzina di undici anni.
Ma questa è l’unica scena brutale di tutto il film. Quella davvero sconvolgente. Il percorso per arrivare alla decisione estrema di Angeliki è il vero orrore, il buio dell’anima che sembra appartenere a tutti i componenti della sua famiglia, la violenza estrema che inchioda lo spettatore e che lo devasta fino all’ultimo fotogramma.
Nella famiglia di Angeliki tutto sembra andare nel migliore dei modi. Una benestante famiglia borghese in cui i membri hanno ruoli diversi ma collegati, dove tutto è all’apparenza perfetto e normale, se non fosse che Angeliki il giorno del suo undicesimo compleanno, si suicida buttandosi dalla finestra. E lo fa dopo aver spento, con aria serena e con il vestito della festa, le candeline sulla sua torta, circondata da partenti e familiari. Allo spettatore, la tragedia viene annunciata vagamente e velocemente solo dalla sguardo e dal sorriso della bambina che racchiude tutto il dramma e lo sconforto della sua vita. La reazione della famiglia a questa incredibile tragedia è misurata e cauta e fotogramma dopo fotogramma il regista svela l’inferno privato vissuto dalla bambina nei suoi pochi e intensi undici anni di vita, un inferno che sembra lambire e coinvolgere anche gli altri membri della famiglia. E si comprende che la pulizia del perbenismo borghese e la normalità che il patriarca mantiene è solo una patina.
Il problema di Miss Violence però rimane la scarsità delle doti emotive, sentimentali e passionali dello stesso regista. Alexandros Avranas confeziona una pellicola psicologica ma senza patos che nelle sue intenzioni dovrebbe coinvolgere solo gli strati più profondi e sensibili dello spettatore senza grandi colpi di scena o effetti speciali ma che non riesce neppure in questo.
La sterilità della sua regia, i movimenti di macchina sperimentali e troppo colti, la narrazione filmica che non lascia spazio ai protagonisti fanno sì che lo spettatore si perda completamente tra i cambi di scena e quello che solo il regista vede sul serio.
Miss Violence così diventa un diario quasi privato di Avranas che usa la pellicola come una sorta di diario di bordo personale per descrivere la propria visione della società attuale. Lui, greco di origine e di cultura è come se in un certo qual modo imbastisse il film di riferimenti e fotogrammi sulla difficile situazione sociale e umana che vive il suo Paese in questi ultimi anni.
Ma lo fa nella maniera più sbagliata e sterile possibile.
Infine, sembrerebbe che la storia di Angeliki sia basata su un fatto di cronaca davvero accaduto in Germania, un orrore reale che diventa orrore cinematografico.
Forse, se la sceneggiatura fosse stata originale o pura finzione cinematografica qualcosa della pellicola di Avranas si sarebbe potuto salvare, ma così c’è solo da riflettere sulla psiche del regista e sulla sua volontà insana di condirla con gli spettatori.
E’ un percorso pieno di domande alla vita e sulla vita quello che coinvolge gli spettatori chiamati a seguire Augusta, protagonista del nuovo film del regista bolognese Giorgio Diritti.
“Un giorno devi andare” affida all’espressività del paesaggio umano e naturale dell’Amazzonia, dolorosamente attraversato dagli sguardi della protagonista Jasmine Trinca, il compito di raccontare un viaggio dell’anima, materia rara nel cinema italiano che avvicina piuttosto il regista all’orizzonte filmico europeo. E’ il dolore a spingere Augusta lontano dall’Italia, a metterla di fronte alla diversità estrema delle popolazioni indios che una missione cattolica sembra imprigionare ancora nelle trame culturali dell’occidente.
Allora la giovane e inquieta Augusta sceglie di andare oltre, di vivere dal di dentro tutti i limiti e le diversità di quella terra, scoprendo quanto la precarietà materiale possa abbattere ogni filtro con la sua interiorità, spazzando via le difese dalla sofferenza. Ma la quotidianità lasciata a casa continua ad irrompere con le figure della mamma e della nonna della donna, definendo nella storia una molteplice immagine del femminile in diversi momenti esistenziali, alla quale si aggiunge la presenza di una ragazza amazzonica il cui destino si incrocia con quello della protagonista trasformandola quasi nel suo alter ego, in un rovesciamento di costumi e abitudini tra due mondi apparentemente molto distanti.
Non sono le parole a definire il racconto del film costruito piuttosto sulla forza dell’immagine – e dunque sulla fotografia e il talento registico – dominata dalla natura essenziale, senza artifici, seguita nel suo corso, con tutte le difficoltà tecniche del caso, nel pieno rispetto dei luoghi e della forza narrativa scaturita dal contatto elementare, quasi primigenio, della protagonista coinvolta come persona prima che come personaggio nell’esperienza del film.
E’ necessario che anche il pubblico posto di fronte al film si metta presto in cammino per superare la pigrizia dello sguardo, andare oltre i confini della lingua e della forma per afferrare il messaggio di stile e di contenuto racchiuso nella coraggiosa ed originale regia di Diritti, sostenuta da un cast pienamente a servizio del progetto, coinvolto e aperto all’incontro con la comunità indios e con gli attori non professionisti scelti dal regista per affiancare gli interpreti italiani. Una fusione armonica che trapela dopo scena dopo scena equilibrando la presenza “straniera” fino a confonderne l’identità, persa nei meandri della foresta e quasi abbandonata nel flusso naturale.
Nel finale una liberazione, per Augusta e per lo spettatore che la accompagna, avvertita come esigenza di perdersi per ritrovarsi, priva però di una chiusa razionalmente definita, in sospeso come è proprio della dimensione dell’andare, senza un “dove” che imprigioni l’occhio aperto verso l’infinito.
Ironica e sagace come non mai, Bea Buozzi mette a segno un altro goal con il suo “Chi dice donna dice tacco” (Morellini Editore), la terza pubblicazione della misteriosa social networker, dopo “Beati e Bannati” (Ed. Perrone) e “Sesso e Volentieri” (Morellini Editore).
Si aggira in maschera e tacco 12 tra eventi fashion e party esclusivi dove le donne e le loro passioni la fanno da padrone, oppure ci si può imbattere in lei nel luogo dove predilige raccogliere le storie che poi ispirano i suoi romanzi: Facebook. E si perché i social network, se ben usati, possono davvero essere una fonte inesauribile di racconti tutti da scrivere, nonché un vero e proprio spaccato dell’attuale società.
Che il migliore amico della donna, oltre al diamante s’intende, fosse il tacco, lo si sapeva da tempo, che ogni modello di scarpa rappresentasse un certo tipo di donna ce lo potevamo immaginare, che partendo dalla scarpa si potesse parlare di amore, sesso, illusioni, delusioni, gioie e dolori, è invece più insolito e ci voleva Bea Buozzi per farlo, raccogliendo le confidenze dei social-internauti e trasformandoli in una carrellata, o meglio in una scarpiera di racconti, che hanno in comune sua maestà il tacco.
Bea mi ha conquistata fin da suo primo libro e quest’ultimo lo trovo un capolavoro per la capacità di divertire e far sorridere celebrando il feticcio per eccellenza delle donne che tanto piace anche agli uomini… a quanto pare su qualcosa le due metà dell’universo sono d’accordo!
D’altronde io stessa leggendolo ho riso davvero tanto, di questi tempi non proprio divertenti peraltro mi sembra già una grande cosa, e ho sorriso molto, forse perché anch’io Cenerentola nell’animo, mi sono identificata con le debolezze tutte femminili che ruotano attorno alle scarpe.
Finito il libro non ho saputo resistere e ho chiesto all’autrice un’intervista, rigorosamente 2.0 in perfetto Bea Buozzi style.
Se Bea Buozzi fosse un modello di scarpa quale sarebbe e perchè?
Se BB fosse un modello di scarpa sarebbe una pump di vernice nera con punta rotonda e la suola inequivocabilmente rossa (Pantone 186C, per l'esattezza)
A proposito di tendenze: "mai senza" quale tipo di scarpa?
Tre sono le scarpe indispensabili: un paio di sneaker per correre in ufficio, un paio di décolleté nere per sedurlo e un paio di Havaianas da lasciare come ricordo (e come scalpo del nostro passaggio) a casa sua.
Quali sono le scarpe a cui sei più affezionata?
E' stato amore a prima vista per un paio di Pigalle, comprate a Parigi in Rue de Rousseau. Un pezzo meraviglioso che, però, non ha la suola firmata dal guru dei tacchi Louboutin. E, poi, una Chanel con fibbia gioiello di Valentino: quasi come un anello di fidanzamento ricevuto da un amore del tempo che fu.
Quali sono invece i "pezzi" più preziosi della tua collezione di scarpe?
Direi che il gioiello dei gioielli è un sandalo in opossum della linea FG (disegnato dalla stilista Alessandra Tonelli) con allacciatura alla schiava in raso di seta. Un vero gioiello da zarina! E un paio di Gaetano Perrone, pump dal tacco vertiginoso.
Quali invece non fanno ancora parte della tua scarpiera, ma sono nei cassetti dei tuoi desideri?
Se ti dico il modello della scarpetta di cristallo che Louboutin ha disegnato per la Cenerentola contemporanea, mi scoppi a ridere in faccia?
No, cara Bea non ti scoppio a ridere in faccia, anzi sogno anch’io quella scarpa (ovviamente con tanto di principe azzurro in dotazione), d’altronde non potrebbe che essere così, lo testimonia anche la tua dedica sulla mia copia del libro, di cui vado orgogliosa: “A Debora, amica di tacco e di zeppe”
CHI DICE DONNA DICE TACCO di Bea Buozzi
Morellini Editore – Prezzo €9,90
SINOSSI
La matematica non è un’opinione, ma si può sintetizzare in un’equazione: gli uomini stanno alle macchine, come le donne ai tacchi. Se però una vettura costa dai diecimila euro in su, il vantaggio per le donne è che con la stessa cifra possono acquistare una montagna di scarpe. Con le debite eccezioni. Esistono modelli di edizioni limitate, avvicinabili solo da mogli di emiri o da rockstar famose.
Ogni donna ha il suo paio prediletto con cui ama identificarsi. Dal mocassino scamosciato per le top manager che non svestono il pantalone nemmeno al mare, al cuissard per la pantera metropolitana. Dalla zeppa per la mamma in lotta con i sampietrini del centro storico, al sabot per la figlia dei fiori contemporanea. L’infradito per la donna freak che ucciderebbe per vivere sulla spiaggia di Ipanema o la décolletée di vernice dalla suola rossa e dal tacco dodici, passepartout dell’eleganza per la donna emula di Coco Chanel.
Una carrellata di scarpe (strizzando l’occhio alla loro storia), ma soprattutto di donne, giocando alla ricerca del corrispondente modello a seconda del tipo. D’altronde, come si sarebbe corretto Archimede se fosse nato nel nostro millennio, “Datemi un tacco e vi solleverò il mondo”, perché “chi dice donna, dice tacco!”
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