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Arriva alla Scala di Milano Simon Boccanegra, melodramma di Giuseppe Verdi. Dal 31 ottobre al 19 novembre è in scena un'opera che nell'Ottocento non era piaciuta, ma che può essere meglio apprezzata oggi da un pubblico più maturo e consapevole.

 

Il soggetto dell'opera è tratto da un dramma dello spagnolo Antonio García Gutiérrez, mai pubblicato in italiano, nel quale si narra la storia di Simone Boccanegra, corsaro genovese che nel Trecento riuscì a salire al trono dogale grazie all'appoggio di un amico. Al termine di una vita funestata da tragici eventi, come la morte della donna segretamente amata e la scomparsa della figlia, morì avvelenato da quello stesso amico. Verdi rappresenta un mondo inondato da litigi e slealtà, che vede patrizi e plebei protagonisti di continui scontri. È qui che agisce l'ex pirata Boccanegra, l'unico giusto tra tanti ingiusti. Da sottolineare il grande gusto poetico della narrazione, in cui la ragion di stato e le vicende umane si incrociano in un turbine di emozioni.

 

Lo spettacolo vede alla regia Federico Tiezzi, e in alcune date il ruolo del protagonista è affidato al tenore di fama internazionale Placido Domingo, esperto interprete di opere verdiane.

Il biglietto è acquistabile online direttamente dal sito del Teatro alla Scala.

 

 

INFO

Simon Boccanegra

di Giuseppe Verdi

Melodramma in un prologo e tre atti

Libretto di Francesco M. Piave

 

Produzione Teatro alla Scala

 

Dal 31 Ottobre al 19 Novembre 2014

Durata spettacolo: 2 ore e 55 minuti incluso intervallo

Cantato in italiano con videolibretti in italiano, inglese

 

Biglietti

Acquistabili qui

 

 

 

 

Paolo Genovese è un bravo sceneggiatore, tanto che i suoi colleghi non mancano di coinvolgerlo e chiedergli supporto tutte le volte che possono o che devono imbastire la classica commedia all’italiana. E per colmo di fortuna, Genovese è anche un bravo regista. Nel senso che il cinema l’ha studiato davvero e non lesina movimenti di macchina indovinati, scelte intelligenti di primi piani e inquadrature da maestro. Però quello che doveva dire lo ha già detto. E avendolo fatto molto bene finisce ora con il ripetersi e l’essere ridondante.

Succede al suo ultimo lavoro, Tutta colpa di Freud che racconta le vicissitudine di uno psicologo cinquantenne costretto dalla vita a crescere ed educare le sue tre figlie da solo.

La commedia potrebbe anche essere divertente se tante (troppe) cose non ricordassero sue cose già viste e come regista e come sceneggiatore. Come ad esempio l’amore inconfessato del protagonista per una donna sposata e che a stento conosce. Il conflitto generazionale e gli equivoci classici della commedia tradizionale.

Per cui, lo spettatore si diverte ma non si stupisce.

Ed è grave perché per un’artista come Paolo Genovese che ama fare il cinema e possiede tutte le carte in regola per farlo di qualità è un vero peccato.

Tutta colpa di Freud è un film da vedere a casa, magari con le amiche, giusto per farsi qualche risata in più. Ma niente altro. Unica vera nota positiva, l’intero cast di attori che si muovono benissimo ognuno nel proprio ruolo, regalando un effetto corale interessante e da gustare.

 

 

Il film vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2013 ha entusiasmato la Giuria del Festival, ricevuto applausi a scena aperta dagli spettatori e mandato letteralmente in estasi i critici che per giorni non hanno fatto altro che parlare del talento di Abdellatif Kechiche e della bravura delle due attrici protagoniste Lea Seydoux e Adele Exarchopoulos.

 

Kechiche però è tunisino di origine e nella madre patria il suo capolavoro che parla di amore lesbo e mostra scene erotiche esplicitamente omosessuali non è piaciuto affatto, tanto che il leader del partito laico Union Patriot Libre, Slim Rihai, è giunto ad affermare con vera indignazione di essere disonorato dal fatto che un suo compatriota abbia vinto il massimo premio al Festival di Cannes, dicendo che la Tunisia non ne è affatto orgogliosa né onorata e che l'oggetto di un film che difende l'omosessualità lede il loro essere arabi e musulmani. E Rihai è il leader del partito laico!

Insomma, come sempre Nemo profeta in patria.

 

Nel caso del regista Kechiche, inoltre, le polemiche si estendono anche ai costi effettivi della pellicola, in principio considerati e immaginati come quelli di un lungometraggio d’autore e in seguito levitati a quelli di una produzione americana e con tempi di lavorazione lunghissimi e massacranti tanto che sul set allestito nella città di Lille l'atmosfera è stata piuttosto tesa e il lavoro dell’intera troupe e delle maestranze è passato da due mesi e mezzo a cinque, con tecnici e operai che hanno denunciato condizioni lavorative non facili.

 

Ma Abdellatif Kechiche ha dimostrato di avere tempra resistente e caparbietà da vendere e alla fine ha realizzato il suo lavoro più importante, la pellicola che lo consacrerà negli annuali della storia del cinema. In realtà, il film non è bellissimo nel senso cinematografico più puro.

 

Non emoziona per la regia o per le scelte dei movimenti di macchina. Non ci sono scelte autoriali che fanno pensare al capolavoro filmico vero e proprio. Anzi, a volte alcune sequenze si ripetono cadenzatamente pur con mutamenti di scena e di location. È vero che il rispetto delle unità aristoteliche è stato abbandonato ormai da tempo dai cineasti internazionali ma è anche vero che la storia deve reggere proprio nei passaggi e nei momenti più importanti e difficili della narrazione.

E da un film vincitore della Palma d’Oro ci si aspetta sempre che sia da esempio per tutti gli altri.

 

Allora perché tutto questo entusiasmo? Sicuramente per il coraggio.

Il coraggio di portare sul grande schermo una storia così forte e soggetta a critiche e il coraggio per averla saputa raccontare senza mezzi termini. A questo possiamo aggiungere sicuramente la capacità di Kechiche di dirigere i propri attori, soprattutto se ancora giovani e poco conosciuti e, in questo suo ultimo lavoro, se donne in particolare.

 

La pellicola racconta la vita di Adèle, innamorata di una ragazza dai capelli blu incontrata per caso e ritrovata in un locale gay. Un cocktail e una panchina sono l’inizio di una storia d'amore appassionata e travolgente che matura Adèle e che la porta fuori dall’adolescenza. Nella vita con Emma, che studia Belle Arti e la dipinge nuda dopo averla amata per ore e sconvolta dal sentimento travolgente che prova per quella donna, Adèle diventa adulta imparando molto presto che la vita è molto più di quello che si legge nei libri.

 

Ancora una volta Abdellatif Kechiche guarda a Pierre de Marivaux, e attingendo al suo celebre romanzo  "La Vie de Marianne" confeziona e realizza  La vie d'Adèle, storia d'amore e di formazione di un'adolescente che concede alla macchina da presa ogni dettaglio e ogni sfumatura di sé. Il desiderio delle due protagoniste, il loro amarsi e concedersi reciprocamente restano il vero senso del film. Niente di morboso o scabroso. Solo amore omosessuale e passione. Chi si aspetta di sbirciare dal buco della serratura rimane deluso. La vie d’Adèle è solo cinema.

E così va preso e va visto.

La mostra del cinema di Cannes 2013 è stata già ribattezzata da molti come l’edizione degli esordienti.

Dei registi esordienti in particolare, che hanno portato nella cittadina del sud della Francia le loro pellicole e i loro lungometraggi e cortometraggi per mostrarli al grande pubblico come si fa con gli abiti in vetrina. Tanto per esserci anche loro e non per vincere qualcosa o partecipare al concorso cinematografico vero e proprio.

E così in qualche sala di qualche albergo della Croisette è possibile guardare anche pellicole assurde o noiosissime come il primo lavoro da regista di Keanu Reeves, Man of Tai Chi che ha come attore protagonista un vecchio amico del regista, ed ex stuntman di Matrix, e una trama che più noiosa non si può.

 

Come si può evincere dal titolo la pellicola è stata girata prevalentemente in Cina, tra Pechino e Hong Kong, e narra la storia di un giovane combattente di arti marziali reclutato da un uomo cattivo e spietato, interpretato dallo stesso Reeves, per combattimenti clandestini, pericolosi e illegali.

Insomma una vera barba anche per gli appassionati del genere dato che la griglia narrativa è molto simile a un’altra sessantina di film sul genere e che gli attori, pur avendo esperienza da vendere, sembrano alle prese con la loro prima recita scolastica.

Eppure la regia della pellicola e la tecnica delle riprese erano state pensate dal neo regista in maniera molto ambiziosa tanto che durante la pre-produzione era stata fatta circolare una clip in cui si annunciava e si mostrava che le sequenze di combattimento sarebbero state girate con un avanzatissimo sistema di ripresa Bot & Dolly. Peccato che lo stesso sistema abbia finito per rivelarsi troppo impegnativo da utilizzare impedendo così di integrarlo nelle riprese come ha spiegato lo stesso Reeves e che anche per questo alla fine la pellicola appaia davvero sotto tono in quasi tutto.

 

Rimane il sospetto che anche il famoso attore americano si sia lasciato affascinare dalla facilità con cui le pellicole asiatiche o di registi asiatici abbiano fatto incetta di premi nelle ultime più importati manifestazioni cinematografiche internazionali.

Man of Tai Chi però è una pellicola proprio scialba. La storia non decolla e i combattimenti anche se sono spettacolari si ripetono in una sequenza che lascia allo spettatore poco tempo per affezionarsi alle vicende e alle disavventure del giovane protagonista.

 

Keanu Reeves invece ha tenuto a rimarcare che ha voluto presentare agli spettatori un giovane che è ancora innocente in questo mondo corrotto e pieno di pericoli. Il protagonsita deve fare un viaggio spirituale e qui metterà in discussione i propri valori e si lascerà affascinare dalle tentazioni del mondo moderno. Addirittura!

Reeves si è ritagliato per sé la parte dell’antagonista cattivo anche se a lui piace definirsi in questo film più un seduttore di anime e un maestro di vita.

 

Probabilmente per gli amanti del genere l’unica particolarità da segnalare è il contributo alla pellicola del bravissimo coreografo, Yuen Woo Ping, anche lui già in Matrix e in lavori come La tigre e il dragone e che ha curato personalmente tutte le action del film.

Un film che ha in tutto diciotto combattimenti e quaranta minuti di esclusivo kung-fu movie.

Come dicevo: una vera noia!

 

"Nessuno ha il potere finché non lo agguanta con il sesso o la violenza"

 

Le alternative sono due e su questo L'uomo con i pugni di ferro, esordio alla regia di RZA, non transige.

Bramosia, denaro, violenti scontri e sensuali prostitute sono i fili che intrecciano la trama del film e le storie dei personaggi che finiscono così con l'avvicendarsi, allearsi e scontrarsi.

 

Un carico d'oro da proteggere è ciò che muove la trama, un forziere che doveva essere protetto e che invece diviene motivo di tradimento e conseguenti lotte sanguinose.

I vari clan che vivono a Jungle Village, in perpetua competizione, vedono ora prevalere i Lions che, forti di un nuovo capo (che senza mezzi termini si è sbarazzato del precedente), osano sfidare il potere dell'imperatore cinese sottraendogli il suo carico di pepite.

 

Le conseguenze sono numerose: la sete di vendetta del principe dei Lions, diretto discendente del capo assassinato; l'ira dell'imperatore che smuove il suo esercito verso il paese; le mire della titolare di un bordello che, aizzando le sue protette, vuole impadronirsi del cospicuo bottino; gli stessi Lions pronti a dichiarare guerra per non perdere la propria posizione; il completo stravolgimento della vita di un umile fabbro, che altro non vorrebbe se non liberare la propria concubina e smettere di forgiare armi per le diverse fazioni. Il tutto contornato dalla misteriosa figura di un emissario dell'impero, che avrebbe dovuto vegliare sul bottino e che tarda a comparire, e un corpulento figuro che vende il suo invincibile corpo a chi gli offre la somma di denaro più alta.

 

Le vicende si snodano in un vorticoso susseguirsi di battaglie a colpi di kung fu, lanci di lame affilate, colpi d'armi e conturbanti episodi fra le lenzuola per arrivare ad un epilogo che vede trionfare in modo davvero improbabile l'umile artigiano.

 

Per gli amanti dello stile di Tarantino, che peraltro presta il proprio nome per presentare il lungometraggio, i riferimenti al grande maestro sono numerosi: dalla scelta di ambientare la storia in una Cina dal sapore controverso e corrotto (enfatizzato dalla presenza di una splendida quanto pericolosa Lucy Liu), alle inquadrature che privilegiano i dettagli splatter, sino al ritiro spirituale che il protagonista affronta prima del proprio riscatto (molto simile al percorso seguito in Kill Bill da Uma Thurman). Lo stile complessivo, inoltre, riflette molto l'influsso del regista con il quale RZA ha avuto modo di collaborare per l'appunto nella realizzazione di Kill Bill.

 

Un film senza grosse pretese che complessivamente coinvolge per le scene avvincenti ed originali, il carisma e la particolarità dei personaggi (una menzione particolare va ad un inaspettato e sorprendente Russell Crowe) e la buona quantità di azione, gestita in modo esemplare, che compensa e rinvigorisce la semplicità della trama.

 

Il Danae Festival è un progetto che cerca di dare risalto a esperienze artistiche nuove della scena contemporanea, proponendo artisti nazionali e internazionali che si esprimono attraverso differenti linguaggi dal teatro alla danza, dalla performing art alla musica, dalla videoarte al cinema.

 Giunto alla sua quindicesima edizione sarà aperto dalla compagnia Teatropersona che presenterà lo spettacolo ‘A U R E’ dal 17 aprile al 2 maggio al Teatro Out Off di Milano.

 A U R E è l’ultimo capitolo della trilogia del silenzio e della memoria, ispirato all’ opera ‘Alla ricerca del tempo perduto’ di Marcel Proust, nella quale tutto si agita, si muove  e si sposta in un mondo reale che però appartiene anche all’ altra sfera, quella dei sogni, che trae dalla realtà nutrimento, rubandone le immagini, e creando delle aure, ossia aloni di vita che avvolgono ogni cosa.

 Regia, drammaturgia, scena, luci e suoni sono curati da Alessandro Serra, mentre l’autore dello spazio e delle figure è Vilhelm Hammershoi, pittore danese del silenzio, capace di permeare la scena di tempo. Nei suoi interni il tempo fluisce come fatto luminoso, tutto è al contempo immobile e vibrante, nella camera oscura interiore si accende una speciale luce, ossia il corpo dell’attore che non si vede, ma fa vedere.

 Regia, drammaturgia, scena, luci, suoni: Alessandro Serra con Chiara Michelini, Francesco Pennacchia, Valentina Salerno

Produzione: Teatropersona, Regione Lazio, Bassano Operaestate Festival, Teatro Fondamenta Nuove Venezia, Rete teatrale aretina, Teatro Comunale Castiglion Fiorentino, Fondazione Ca.Ri.Civ.

 Mercoledì 17 aprile ore 21.00

Durata 55’

DANAE FESTIVAL XV edizione

a cura di Teatro delle Moire

intero 10 euro, ridotto 8 euro

Teatro Out Off

via Mac Mahon, 16

20155 Milano

tel. 0234532140

www.teatrooutoff.it

Instagram

 

 

Direttore Responsabile
INDIRA FASSIONI

Se vuoi scriverle: direttore@nerospinto.it

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