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Still, via Balilla 36 a Milano,  ospita la mostra personale di Giovanna Taddei: fotografia e cibo si uniscono. 

Il male è il bene. Fino a che punto la cosiddetta morale può essere messa in discussione, tanto da sovrapporre e confondere la bontà con la cattiveria, il delitto con la giustizia?

La domanda sorge spontanea nel momento in cui si diventa spettatori di alcune tra le fiction made in USA più geniali degli ultimi anni.

Sembrano ormai storia vecchia i piccoli mafiosi di periferia (The Soprano’s) che facevano del crimine e delle ruberie la loro routine, inquadrando il male solo da un punto di vista “lavorativo” e prettamente malavitoso. Ora, a calcare le scene del piccolo schermo sono personaggi completamente diversi. Geni del male cattivi in tutti i sensi, uomini in grado di svelare il loro lato oscuro in maniera totale e, finalmente, priva di striature moralistiche.

Ed è dalla mente brillante di sceneggiatori come James Manos o Vince Gilligan che nascono due tra gli antieroi più riusciti e amati di tutti i tempi: Dexter Morgan e Walter White.

Il primo, Dexter, da il titolo all’omonima serie, arrivata oggi alla settima stagione.

Dexter Morgan (Michael C. Hall) è un ematologo in forza alla polizia di Miami. Prende molto seriamente il suo lavoro, è preparato e attento, tanto da capire com’è avvenuto un crimine semplicemente dalla disposizione delle macchie di sangue, dalla loro forma. Ma non è tutto qui. Dexter Morgan è anche un serial killer, ma non è un pazzo maniaco qualunque, è un omicida che segue un “codice”, poiché è un assassino di assassini. Le sue vittime sono le persone più spregevoli, che riescono in un modo o nell’altro a sfuggire alla mano della giustizia, continuando a perpetrare i loro crimini o nascondendosi dietro figure di padri di famiglia.

Ma Dexter non uccide per vendetta o per un’innata sete di giustizia: l’unica motivazione che lo guida è il bisogno, un bisogno senza possibilità di redenzione, che lo spinge a versare sangue fin dalla sua tenera infanzia. Un bisogno certamente pericoloso, ma reso più accettabile e persino controllabile dal padre, un poliziotto. Egli, decise di crescerlo non sopprimendo i suoi istinti, ma incanalandoli all’interno di un codice, facendo sì che la sua sete di sangue non colpisse vittime innocenti. E certo, questa sua doppia vita lo porterà spesso a dover mentire e imbrogliare persone a lui care e vicine (la sorella, anche lei poliziotta, i colleghi, la fidanzata…) Ma il rimorso scivola via nel momento in cui il suo “dark passenger” prende il sopravvento, trascinando anche il pubblico in un buio mentale senza via d’uscita.

Il nostro secondo antieroe, Walter White (Bryan Cranston), protagonista della serie Breaking Bad, sembra inizialmente diverso.

Conduce una vita ordinaria nell’afosa Albuquerque, è il padre di un adolescente disabile e marito di una splendida donna. Mantiene la famiglia con il suo stipendio da professore di chimica e, per racimolare qualche dollaro in più, è impiegato in un autolavaggio. Tutto cambia quando, il giorno del suo cinquantesimo compleanno, scopre di avere un cancro incurabile ai polmoni. Disperato per la precaria situazione economica, sapendo di dover affrontare spese enormi per le sue cure e per una nuova bimba in arrivo, sembra aver perso ogni speranza del futuro. Attraverso suo cognato Hank, che lavora alla DEA, scopre che gli spacciatori di metanfetamine guadagnano un sacco di soldi, se nessuno li scopre, è in quel momento che decide di contattare un suo ex alunno, Jesse, che sa essere nel giro delle droghe, per fare un accordo: Walter, grazie alle sue conoscenze di chimica, cucinerà cristalli mentre Jesse li spaccerà.

Inizierà in questo modo l’evoluzione del personaggio verso i più oscuri abissi dell’animo umano. Inizialmente pervaso da sensi di colpa e spinto a delinquere solo dal bisogno di soldi, pian piano emergerà un uomo completamente diverso, nel quale la sete di potere e la voglia di superare ogni limite si farà largo così naturalmente da portaci a giustificare ogni suo crimine più efferato.

Sarà forse proprio la naturalezza e l’esattezza con cui i due registi ci mostrano la dinamica dei crimini (non sembra poi così spaventoso pugnalare al cuore un uomo e nemmeno cucinare droghe dal potenziale mortale), sarà forse la novità di trovarci a seguire delle vicende umane atipiche o sarà piuttosto un’ innata propensione verso il male, insita in ognuno di noi, che spingono queste serie verso un successo mondiale?

Infatti non si può non provare simpatia per il giovane assassino di assassini, e, sotto sotto, non si può non parteggiare per lui, nonostante si tratti, in fin dei conti, di un serial killer. Così come risulta impossibile non sperare che Walter riesca a farla franca ancora una volta, tifando per il suo cinismo pragmatico.

Perché la vera lezione, tremenda, è che in fondo personaggi come Dexter o Walt White sono le persone che tutti vorremmo essere, il lato oscuro che ci portiamo dentro ma a cui solo loro danno sfogo. Loro incarnano la vera redenzione dal “peccato” degli uomini comuni e la tendenza innata che ci distingue da ogni altro animale: il male può diventare un bene.

 

C’è un momento in cui l’arte lascia spazio al senso umano dello stupore e della grazia. Un momento in cui l’occhio ignaro dello spettatore/passante riesce a cogliere quel nonsoché di mistico e trascendentale che sembra riportare, anche se per poco, ogni uomo all’origine della sua forma e della sua essenza.

Ed è proprio questo che accade recandosi a visitare la mostra di Alberto Garutti (Galbiate, 1948) al PAC di Milano.

L’esposizione, curata da Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist prende il titolo “Didascalia”, parola molto importante per l’artista perché sottolinea la necessità di un’arte spiegata e da spiegare, dunque non chiusa in una turris eburnea di incomunicabilità e distanza dal suo pubblico.

Il percorso espositivo traccia l’intera evoluzione delle ricerche di Garutti, a partire dagli anni 70 fino ad oggi, che attraverso una fenomenale commistione tra arti visive, conversazione e insegnamento inquadra il lavoro dell’artista in una dimensione narrativa dell’opera d’arte.

Una sorta di racconto partecipe dell’umanità, all’interno del quale tocca temi quali il rapporto tra artista e committenza (nella serie Orizzonti - dipinti a partire dal 1987 su vetro in bianco e nero, in diverse dimensioni, ogni quadro porta il nome del suo committente) o come la riflessione dello spazio e del ruolo dell’artista nella città, basti pensare all’istallazione “Ai Nati Oggi” (realizzato in varie città dal 1998 al 2005) dove l'artista collega alcuni lampioni presenti in aree pubbliche ai reparti di maternità degli ospedali, in modo che la nascita di un bambino coincida con l’intensificarsi della luce che aumenta per poi decrescere lentamente. Facendo questo Garutti inserisce l’arte non solo nei luoghi di “cultura” ma fa diventare arte la vita comune, ridando giustizia e poeticità alle zone d’ombra dell’esistenza.

Si tratta di arte concettuale evocativa, spesso non immediata, che merita un secondo sguardo. Per l’artista l’arte è un luogo eclettico, un’epifania del vero in cui tutti fanno la loro parte, l’artista come il passante.

Una ricerca di luce sul mondo, dunque, per ridare sensibilità e bellezza attraverso l’arte, la forma più antica di rappresentazione dell’uomo, l’unica in grado di rappresentarci sempre e comunque, da un’eterna dimensione del cuore.

 

Carmelo Bene

Sono passati dieci anni dalla morte di Carmelo Bene. Dieci anni in cui l’Italia, assieme al suo panorama culturale e sociale, ha conosciuto profondi cambiamenti, diventando un paese in cui sembra che le arti espressive fatichino a trovare una propria dimensione. Ma in questi anni la figura dell’eclettico Carmelo Bene non ha cessato di suscitare interesse e fascino, anche nelle generazioni più giovani.

Carmelo Bene nasce a Campi Salentina, in provincia di Lecce, nel 1937.

Bene svolge i primi studi classici presso un collegio di gesuiti e nel 1957 si iscrive all'Accademia d'Arte Drammatica per lasciarla appena l'anno dopo, definendola semplicemente inutile. Dal 1959 inizia la sua carriera di attore e regista teatrale, sempre orientato verso la rielaborazione dei classici; rielaborazioni che, in realtà, erano veri e propri esercizi di decostruzione e smembramento, ma che lui si limitava a definire semplicemente come “variazioni”.

Il centro della riflessione artistica di Bene è una radicale riconsiderazione della parola e dell’immagine: egli applica ai suoi spettacoli teatrali una quantità tale di erudizione, di impegno teoretico e di ricerca, che solo un filosofo potrebbe applicare in un trattato. Sperimentatore assoluto (si avvarrà spesso di sofisticate apparecchiature elettroniche costituite da amplificatori, microfoni ipersensibili, monitor-spie da diecimila watt) egli tenta il superamento della dimensione linguistico-comunicativa attraverso la manipolazione tecnica del significante.

Fu così che, in poco tempo, l’attore-autore riuscì a far parlare di se’, facendo esplodere in Italia un vero e proprio “caso Carmelo Bene”: portato alla ribalta della cronaca artistica, Bene affascinò personaggi del calibro di Pier Paolo Pasolini, il quale lo volle come interprete del suo Edipo Re e con il quale ebbe inizio la sua parentesi cinematografica.

Nel 1965 Bene si avvicinò al mondo della scrittura, pubblicando il romanzo Nostra signora dei turchi, che verrà messo in scena l'anno seguente. Trasformato in film, Nostra signora dei turchi venne presentato al festival del cinema di Venezia, dove ricevette il premio speciale della giuria. Seguirono altri film: Capricci (1969), Don Giovanni (1970), Salomè, (1972) e Un Amleto in meno (1973), con cui si concluse la sua esperienza cinematografica.

Nel 1974, torna al suo primo vero amore, il teatro, proponendo una sconvolgente interpretazione de La cena delle beffe, la quale aprì la strada ad una svolta "concertistica" che culminò con il poema sinfonico Manfred, del 1980, costruito su musiche di Schumann ed apprezzato tanto dalla critica quanto dal pubblico.

Negli stessi anni Bene porta sulle scene i grandi classici della poesia italiana, sono memorabili le sue interpretazioni dei Canti orfici di Dino Campana, dei Canti leopardiani e le sue letture dantesche; performance che sono viste ancora oggi tra gli omaggi più toccanti e sentiti che un attore abbia potuto fare alla poesia.

Lui stesso nel 2000, pubblicando la raccolta ‘L mal de’ fiori, si cimentò con la scrittura in versi, vista da Bene come la possibilità ultima di una ricerca linguistica che doveva culminare verso un totale e vero “svuotamento” . Sarà proprio lui a dire, in un’intervista:

“Nel 'mal di questi fiori' si fa sempre più solare il fatto che laddove il tutto possa sembrare una eruzione vulcanica, è invece somma-sottrattiva che, mediante le più svariate soluzioni chimico-linguistiche, via via si svuota.”

Incensato da filosofi del calibro di Gilles Deleuze, ma quasi totalmente incompreso dagli intellettuali italiani del suo tempo, Bene si cimentò anche in performance televisive (memorabili le sue due apparizioni al Maurizio Costanzo show, dove esordì con la frase “È con infinita agape, molto più che schopenhaueriana, che ho compreso, senza per questo immedesimarmi, di essere di fronte a una platea di morti”) nelle quali seppe fare sfoggio di tutte le sue doti di provocatore e seduttore delle masse.

Ma al di là dell'idea provocatoria ed eccessiva che Carmelo Bene ha potuto suscitare, resta viva la potenza di una ricerca radicale dell’uomo e dell’ “artista in quanto uomo”, di una personalità mai sottoponibile a schematizzazioni, ma anzi generosa in maniera multiforme anche se contraddittoria. Per citare le sue medesime parole: “Il problema è che l'io affiora, per quanto noi vogliamo schiacciarlo, comprimerlo. Ma finalmente, prima o poi, questa piccola volontà andrà smarrita. Come dico sempre: il grande teatro deve essere buio e deserto".

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