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Francesco Gungui torna in libreria il 7 giugno con il suo ultimo romanzo edito da Giunti Tutto il tempo che vuoi, una storia che fa riflettere sugli imprevisti della vita.

L’appartamento di via Jan

Prosegue il viaggio di Nerospinto tra le antiche dimore milanesi, veri e propri scrigni di tesori dell'arte e della cultura del passato, meraviglia ed orgoglio per il capoluogo lombardo. Per questa seconda tappa parliamo della casa museo che si trova in via Jan, nelle vicinanze di Corso Buenos Aires e quindi facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici. La visita è gratuita e guidata, assolutamente consigliabile. La Casa museo è allestita al secondo piano del Palazzo dei Boschi Di Stefano, palazzo da loro stessi abitato, e usato come sede della imponente e prestigiosa collezione di artisti del 900 italiano.

L’appartamento dei coniugi Boschi Di Stefano è collocato all’interno di una palazzina progettata tra il 1929 e il 1931 da Piero Portaluppi, uno degli architetti più attivi a Milano tra gli anni venti e gli anni trenta. La mano dell’architetto è riscontrabile nei dettagli decorativi degli interni, dai mosaici dei pavimenti, agli infissi, ma soprattutto nel doppio bow-window della sala. Gli arredi originali di Casa Boschi, oggi in buona parte perduti, non godevano di particolare attenzione da parte dei proprietari e, ad eccezione di alcuni elementi, non erano opera di Portaluppi.

Senza seguire l’originale destinazione degli spazi, per l’apertura della casa museo gli ambienti sono stati allestiti con arredi coevi all’appartamento tra cui spiccano la ex stanza degli ospiti (oggi dedicata al Novecento italiano), arredata con uno studio Déco progettato negli anni trenta da Ernesto Basile e la stanza dedicata a Sironi allestita con una sala da pranzo progettata dallo stesso artista per la triennale di Milano del 1936. Resta nella sala centrale il pianoforte a coda Bechstein grazie al quale venivano organizzati piccoli concerti.

La Casa-Museo

La Casa Museo Boschi Di Stefano nasce dalla generosità di Antonio Boschi e Marieda Di Stefano che nel 1973 donarono la loro collezione di arte contemporanea con la clausola che il Comune di Milano aprisse un museo nell’appartamento di famiglia nella palazzina di via Jan 15. La collezione spazia dal futurismo agli anni cinquanta con opere di Soffici, Boccioni, Sironi, Severini e Dottori, del “Novecento italiano”, di Mario Sironi, cui è dedicata una stanza monografica, di Morandi, De Pisis, “Corrente” e del chiarismo lombardo. Nella sala centrale, opere di de Chirico, Campigli, Savinio e Paresce ricostruiscono l’apporto italiano alla Parigi degli anni trenta mentre una stanza è interamente dedicata a Lucio Fontana. Nell’ultima sala gli acquisti più recenti, tra cui una serie di Achrome di Piero Manzoni.

Storia:

Tra la fine degli anni venti e la fine degli anni sessanta, arco di tempo nel quale si forma la collezione di Marieda Di Stefano e Antonio Boschi, Milano è la città italiana più indirizzata verso l’arte contemporanea. Sulla scorta della tradizione che ha visto nel 1909 nascere a Milano il movimento futurista, nella città viene fondato nel 1922 il Novecento Italiano. Nel 1933 viene firmato da Sironi, Campigli, Funi e Carrà il Manifesto della Pittura Murale, mentre nel 1947 Lucio Fontana vi pubblica il Manifesto dello Spazialismo.

Marieda Di Stefano (1901-1968) proveniva da una famiglia di costruttori originaria delle Marche. Dal padre Marieda ereditò il gusto per l’arte e il collezionismo che dopo il matrimonio iniziò a condividere con il marito. Allieva dello scultore Luigi Amigoni, Marieda lavorò per tutta la vita come ceramista esponendo in varie gallerie e fondando al piano terra di via Jan una scuola di ceramica tuttora gestita dalla figlia di Amigoni. Antonio Boschi (1896-1988) laureato in ingegneria al Politecnico, lavorò alla Pirelli nel campo della produzione e lavorazione della gomma, elaborando importanti brevetti che gli valsero nel 1963 la Medaglia d’Oro al Lavoro e al Progresso Economico della Camera di Commercio.

Nonostante la distanza dal lusso e le iniziali modeste condizioni economiche i coniugi Boschi da subito si dedicarono ai primi acquisti in campo artistico. Per comprare una serie di opere di de Chirico, Sironi e Funi arrivarono persino a vendersi l’automobile. Il vero collezionismo spesso sconfina nelle frequentazioni private e infatti i Boschi si circondarono del contesto culturale della loro epoca, il salotto della casa di via Jan era infatti sede di piccoli concerti e di serate di scambio intellettuale frequentate da artisti.

La Collezione

La collezione, che spazia da opere futuriste dei primi anni dieci alle opere informali della fine degli anni cinquanta, è stata suddivisa negli spazi per movimenti e correnti. L’ingresso di casa Boschi è dedicato alla figura dei due collezionisti ed è l’unica stanza che conserva gli arredi originari tra cui una grande ceramica di Marieda. Alle pareti una serie di ritratti dei coniugi tra cui quelli realizzati da Remo Brindisi, Il corridoio ospita le opere futuriste ereditate da Marieda dalla collezione del padre tra cui un Boccioni giovanile, due Severini e un Soffici.

La stanza successiva, che originariamente era la stanza degli ospiti, è allestita con una selezione di opere di artisti del Novecento italiano divise per generi. Da qui si accede ad una ricca stanza monografica dedicata a Mario Sironi con opere dagli anni venti agli anni quaranta tra cui la “Venere dei Porti” (1919), capolavoro metafisico. Nella sala da pranzo sono allestite una serie di opere di artisti vicini alla rivista “Corrente” (Sassu, Guttuso, Birolli) e due pareti monografiche, una dedicata a Morandi ed una a De Pisis. La sala centrale presentala Scuola di Parigi, ovvero gli artisti italiani che tra gli anni venti e trenta lì soggiornarono, tra cui Campigli, de Chirico, Savinio e Paresce. Lo studio dell'ingegner Boschi ospita una serie di opere di Fontana, artista che i Boschi frequentavano abitualmente.

Lo studio di Marieda è oggi dedicato al Picassismo degli anni quaranta e al Nuclearismo con una serie di opere di Baj, Dova e Dangelo e Crippa. L’ultima stanza, originariamente la stanza da letto dei coniugi, ospita le opere appartenenti al clima Informale degli anni Cinquanta con dipinti di Vedova, Turcato, Chighine e una coeva parete di “Achrome” di Piero Manzoni.

Eventi

Le “serate musicali” offerte dai coniugi Boschi nella loro casa sono rimaste nella memoria. Così è nata l’idea di riproporre quel “clima” ai giorni nostri con alcuni concerti: da un lato con lo scopo di far vivere la casa, come se fosse ancora abitata dai due collezionisti; dall’altro suggerire maggiori relazioni e corrispondenze fra musica e arti figurative nel periodo in cui la collezione si è formata, attraverso musiche da camera del Novecento di diversa provenienza e generi.

Curiosità

Durante la visita sono presenti i volontari del Touring Club, accoglienti e  preparati ad introdurvi alla storia della casa e della collezione, fornendo accurate spiegazioni.

 

Casa Museo Boschi Di Stefano via Jan, 15 - Milano www.comune.milano.it www.fondazioneboschidistefano.it

Orari Aperta da martedì a domenica dalle 10.00 alle 18.00 Chiuso: tutti i lunedì, 1/1, 1/5, 25/12

Biglietti Gratuito Prenotazione obbligatoria per i gruppi

 

Alice Herz-Sommer si è spenta a Londra all’età di 110 anni.

Un traguardo di vita di tutto rispetto considerando che Alice era la più anziana sopravvissuta dell’Olocausto nazista e che la morte l’aveva vista da vicino più e più volte.

Alice, nella sua Praga dei primi del Novecento, aveva imparato a suonare il piano, un po’ perché le signorine di buona famiglia dell’epoca lo facevano quasi tutte e un po’ perché a lei suonare piaceva davvero tanto.

La musica, anzi, era la sua più vera e autentica passione.

Alice conosceva alla perfezione il repertorio classico ma si dilettava a suonare anche brani di compositori contemporanei e lo faceva sempre con il sorriso sulle labbra e con a gioia nel cuore.

Quando conobbe Alfred fu amore a prima vista e con la dolcezza e la grazia che contraddistinguevano da sempre Alice, i due si sposarono e misero al mondo Stephen.

Amore e musica, quindi, per una famiglia che viveva la normalità del suo tempo pur in mezzo alla straordinarietà degli eventi e della storia.

Nel 1938, le leggi razziali fecero sì che molte famiglie ebree emigrassero in cerca di pace e salvezza in altre parti del mondo e lasciassero quella vecchia Europa che sembrava preda della follia più assurda e inspiegabile.

Molti dei famigliari di Alice, prima che arrivasse il peggio, decisero di emigrare nell’allora Palestina, altri fuggirono in America ma Alice preferì restare a Praga per accudire la madre che era molto ammalata.

Per lei, sua madre, il marito e suo figlio Stephen fu il disastro più assoluto.

Alfred venne imprigionato per primo e condotto prima ad Auschwitz e poi nel campo di concentramento di Dachau dove morì senza poter rivedere o riabbracciare sua moglie e suo figlio.

Alice e il piccolo Stephen furono portati nel campo di Teresin, restando in Cecoslovacchia ma tagliati fuori dal resto del mondo. Schiavizzati, umiliati, affamati e distrutti nel corpo e nell’animo dai nazisti e dal regime autoritario.

Con Alice e suo figlio a Teresin c’erano quasi centocinquantamila ebrei, quasi quarantamila di questi morirono.

Alice e Stephen riuscirano a sopravvivere fino all’arrivo dei liberatori e allo smantellamento del campo di concentramento. Come? Alice spiega e racconta che è stato merito della musica, delle note che le permettevano di evadere con la mente e con lo spirito e che permutavano questa stessa illusoria evasione anche a suo figlio a i tanti prigionieri che dividevano con lei gli spazi di morte e distruzione del campo di Teresin e la sua stessa infelice sorte.

Prima che la più anziana sopravvissuta all’Olocausto ci lasciasse per sempre, però, è stato girato un documentario The Lady in number 6 candidato come miglior corto alla serata deli Oscar del prossimo mese di marzo. Un omaggio a una dolce e fortissima donna.

Un documento da tramandare alle future generazioni per raccontate la forza della vita anche tra la più atroce follia e l’oppressione della morte. Addio Alice. E grazie per la tua musica.

 

 

Era il 1940 quando sulle scene americane appare la pellicola più di successo di Alfred Hitchcock.

Il film è Rebecca la prima moglie, sceneggiatura tratta da un lavoro letterario di du Maurier e la protagonista indiscussa è lei Joan Fontaine, bella, tormentata e magnifica negli abiti di scena creati apposta per darle l’aria più barocca e decadente possibile.

La pellicola è un successo mondiale e la Fontaine viene candidata come migliore interprete.

I tempi per lei non sono però ancora maturi e la statuetta va a una più nota e rampante Ginger Roger che incassa il successo ma comprende bene che quella giovane donna bionda e bravissima le starà di sicuro con il fiato sul collo.

Così è infatti e Joan Fontaine figlia di una attrice britannica e sorella della più famosa Olivia de Havilland scala tutti i traguardi e diventa la musa per eccellenza di Hitchcock aggiudicandosi due anni dopo l’ambita statuetta con Il sospetto.

Da quel momento in poi la carriera di Joan vola e lei interpreta, con successo, qualcosa come cinquanta film, l’ultimo dei quali nel 1994.

Arrivata piccolissima in California con sua madre Lilian e sua sorella Olivia, Joan scopre prestissimo la sua passione per la recitazione e calca il palcoscenico con amore e buoni risultati, fino a che non decide che il fascino del cinematografo è per lei più forte.

Gli anni Trenta del Novecento la vedono interprete di piccoli ruoli o di comparse ma sempre accanto ad attori famosi e questo è il periodo in cui Joan non solo può farsi le ossa con registi bravi e nella recitazione filmica ma anche frequentare il mondo dorato e pieno di occasioni di Hollywood.

Come succede spesso per le interpreti di successo e per le pellicole da cineteca anche per Joan Fontaine il ruolo chiave resterà sempre quello di Rebecca la prima moglie e così vogliano ricordarla anche noi. Fragile ma forte, bella e insicura. La vera rivelazione del cinema noir anni Quaranta.

 

 

Dalla musica agli abiti, dalle mostre al cinema, il decennio più controverso, irreverente e geniale del Novecento sembra un pozzo senza fondo da cui attingere idee, storie e spunti per il rinnovamento o solo per un revival emozionale.

Succede anche al regista David O. Russell che confeziona per questo inizio di 2014 un poliziesco grottesco e irresistibile sulle gesta di due noti truffatori americani degli anni Settanta e di un ambizioso ed egocentrico agente dell’FBI pronto a incastrarli ma altrettanto pronto ad usarli per mettere le manette a molti politici locali e senatori del parlamento degli Stati Uniti.

La storia e la trama di American Hustle sono in realtà parecchio pasticciate e accanto ai quattro bravissimi protagonisti e attori principali ruota un sottobosco di comparse e di personaggi minori che servono al regista per dare alla sua pellicola l’idea della frenesia e dell’improvvisazione che regnava proprio nel periodo storico presentato e per richiamare l’attenzione dello spettatore sul fatto che ogni finale sarà comunque a sorpresa.

Nella sua frenesia creativa Russell non manca di coinvolgere anche un mostro sacro di Hollywood come De Niro a cui affida un cammeo di pochi minuti ma talmente ben riuscito e intenso da farlo ricordare con precisione a chiunque veda la sua pellicola.

Diciamo allora che il copione regge. La storia è improponibile e grottesca ma l’idea finale che resta agli spettatori è quella di un film non commerciale ma geniale e originale quanto le prime pellicole dei fratelli Coen. In realtà American Hustle non ha nulla della pellicola di autore e Russell è un regista da Studios ma il fumo negli occhi che è riuscito a inviare grazie a una ricostruzione minuziosa dei particolari gli regge benissimo il gioco e l’atmosfera del film è da dieci e lode.

Bellissimi i costumi, le pellicce non vere ma molto ben fatte, le complicate acconciature delle protagoniste, le tutine con profondi scolli davanti della bella Amy Adams e i riccioli artificiali e nerissimi del grande Bradley Cooper, quasi irriconoscibile con il look di Tony Manero.

Indovinate anche le ambientazioni disco e il clima italo americano del New Jersey proprio degli anni Settanta dove tra politici, elettori, poliziotti e procuratori i cognomi italiani la facevano da padrone e il senso di piccola comunità si sposava con il patriottismo americano delle seconde generazioni. E così che David O. Russell regala agli spettatori un film quasi da sfogliare come un libro di Ellroy, dove c’è la pupa e il boss, il poliziotto accanito e il politico corrotto ma c’è anche tutto il glamour e il fascino di un decennio che ha inventato la modernità e la trasgressione.

Bellissimo e coraggioso.

 

 

Un altro pezzo di storia e di cultura italiana che se ne va. Con la scomparsa di Carlo Lizzani, morto suicida a novantuno anni, va via una delle ultime firme della cultura italiana del Novecento, il genio di un uomo che ha saputo muoversi con garbo e intelletto tra cinema, scrittura e azione politica.

Che cosa si ricorderà alla nuove generazioni? Il Carlo partigiano, lo sceneggiatore di grandi pellicole, il regista di opere come Cronache di poveri amanti, lo storico del cinema a cui si devono i volumi più belli e completi della nostra editoria? È difficile dirlo perché, quando si è stati così bravi e portanti in tutto, parlare di competenze, successo e genialità diventa sempre un tutt’uno; e così parlare della sua partecipazione alla Resistenza romana o della sua scrittura sulla guerra e nel cinema del realismo cambia poco dato che tutta la sua vita può essere esplicata nella sua grande capacità di partecipazione. Per Carlo Lizzani, esserci nel senso di operare e agire è sempre stato più importante che apparire, che farsi riconoscere per strada o firmare autografi.

L’uomo d’azione desiderava solo fare e costruire. Per questo, i più grandi registi del neorealismo lo hanno sempre voluto al proprio fianco, per questo la sua militanza nel Partito Comunista Italiano è stata una azione anche essa, volta ad un nuovo pensiero culturale e comunitario, dove l’intelligenza e il sapere avrebbero dovuto guidare gli individui.

Carlo Lizzani si mise alla prova quasi in tutto e tutto gli riuscì.

Nel 1979 accetta di prendere in mano le sorti della Mostra del Cinema di Venezia, un evento che dopo i duri fatti di cronaca, le lotte politiche e sociali e la crisi economica italiana aveva perso il suo smalto originale, era snobbata dai grandi nomi del panorama internazionale e rischiava di diventare una mostra cinematografica di provincia.

Lizzani, forte del suo prestigio e della sua grande capacità di creare e dare vita alla cultura, richiama i grandi registi, aggiunge nuove sezioni e porta a Venezia le pellicole più prestigiose del cinema mondiale. La Mostra del Cinema è nuovamente un successo, un evento di cultura e costume, un appuntamento intellettuale e glamour insieme.

Nel 2009 Carlo Lizzani pubblica uno dei saggi più belli degli ultimi anni, Riso amaro. Dalla scrittura alla regia, non solo un vademecum per capire ed entrare nella storia di una delle pellicole italiane che ha vinto più riconoscimenti anche all’estero, ma un manuale di scrittura per tanti giovani sceneggiatori che vogliono apprendere il mestiere dal migliore.

E come sempre aveva fatto nella sua vita, Carlo Lizzani decide anche di essere un uomo d’azione nel porvi fine. Non aspetta, non cede né concede nulla al pietismo, non scende a compromessi con la dignità e muore di propria mano, a novantuno anni e dopo aver vissuto esattamente la vita che voleva.

Addio a un uomo di pensiero e di azione quindi, a un grande intellettuale, a un uomo che la storia del Novecento non l’ha solo scritta.

 

 

E' stata inaugurata il 16 giugno la settima edizione della Biennale Internazionale di Scultura, presso il Real Castello di Racconigi (Cuneo).

A cura di Claudio Cerritelli, 62 opere di grande dimensione sono state distribuite nel parco, che è stato premiato nel 2010 come più bello d'Italia. Gli artisti scelti per l'occasione sono italiani, spagnoli e tedeschi, di differenti generazioni e provenienti da percorsi culturali eterogenei.

Il titolo di quest'anno, Pensare lo spazio. Dialogo tra natura e immaginazione, indica la necessità di vivere il rapporto tra scultura e ambiente, al fine di accrescere nell'osservatore la sensibilità davanti al costante rapporto tra artisti e mondo reale.

La scultura come forma attiva (e bene pubblico), che permette un'amplificazione polisensoriale dell'ambiente. E' quest'ultimo, infatti, a incidere sull'opera stessa: una giornata di sole o di pioggia può modificare la visione grazie a una diversa intensità della luce.

La mostra è una riflessione sulle diverse ricerche che sono state compiute nella seconda metà del Novecento in questo campo, dall'informale all'astrattismo fino al nuovo costruttivismo. Nei locali sottostanti la serra è presente una sezione storica di opere di scultori attivi nel secondo dopoguerra in Italia. Non perdete l'occasione di visitare l'interno del meraviglioso castello, raggiungendolo, magari, con una passeggiata con le carrozze messe a disposizione dall'ente che gestisce il parco.

Real Castello di Racconigi

via Morosini 1, Racconigi (Cn)

Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 19.00

www.ilcastellodiracconigi.it

I fratelli Coen ritornano al cinema delle loro origini e lo fanno con una pellicola divertentemente amara dove le speranze e i sogni di un giovane e aspirante cantante si scontrano e si fondono con la dura realtà dei sobborghi operai di New York City e la difficoltà di emergere nel mondo dell’arte e della musica dei primi anni Sessanta del Novecento.

 

In Inside Llewyn Davis, presentato all’ultima mostra del cinema di Cannes, c’è una realtà oggettiva fatta di sacrifici e di speranze e c’è il mondo onirico e intimamente drammatico del protagonista. Due universi che non possono incontrarsi e che sono destinati a rimanere paralleli nonostante la fatica, l’impegno e le indubbie doti artistiche del giovane Llewyn Davis. Gli anni Sessanta al Greenwich Village hanno visto la nascita e l’affermazione della musica folk come genere emblema di una generazione di musicisti e di appassionati, un genere che avrebbe cambiato per sempre la storia della musica internazionale e che avrebbe avuto in Bob Dylan il suo guru più importante.

 

Il folk, però, nasce da più lontano. Come inno di passione e di speranza ad opera di giovani dei sobborghi operai della City che tra un turno in fabbrica, un lavoro estivo e uno provvisorio arrivano al Village pieni di sogni e speranze ma soprattutto con l’irrefrenabile desiderio di dare una svolta alla loro vita. Figli di operai che sognano il palcoscenico e la loro musica che passa nelle radio più famose d’America.

Llewyn Davis è uno di questi ragazzi. Vive alla giornata, dorme da conoscenti ogni volta diversi che lo ospitano su piccoli e logori divani in altrettanto piccoli e dimessi appartamenti e non riesce a guadagnare neppure un dollaro al giorno. E come per i migliori personaggi ebrei pensati dai fratelli Coen per le loro pellicole è perseguitato da una sfortuna incredibile. Che lo stesso Llewyn ha contribuito a costruire e di cui è in buona parte responsabile.

Fragile, malinconico, introverso e irresistibile, il giovane protagonista riesce a non concludere nulla neppure con il socio musicista con cui parte alla conquista di New York immaginando di suonare in un duo e di conquistare così pubblico e critica. Il socio però lo molla presto e Llewyn rimane solo a gestire la sua vita e la sua ebraicità cercando il successo ma sentendosi in colpa per questo, desiderando essere famoso al più presto ma volendo conservare il suo purismo artistico.

 

Llewyn è probabilmente uno dei personaggi più infelici e belli mai creati dai fratelli Coen.

Il film è per i nostalgici dell’epoca e anche per chi da contemporaneo ne vuole respirare l’aria più autentica. I registi sono riusciti a riportare fedelmente le ambientazioni degli anni Sessanta, gli studi di registrazione, i locali dove la musica folk spopolava e perfino i tipici appartamenti newyorkesi con le scale antincendio esterne improvvisando un omaggio cinematografico a Colazione da Tiffany facendo anche apparire un gatto che, a differenza dell’altro con la bella protagonsita del film del 1961, riesce a essere più scaltro, fortunato e vincente del protagonsita Llewyn.

È l’amaro di tutti i film intimisti dei fratelli Coen, il loro marchio di fabbrica più famoso e meglio riuscito e che fa di Inside Llewyn Davis la pellicola più struggente dell’ultima mostra del cinema di Cannes. Il protagonsita del film è l’attore Oscar Isaac, ma c’è anche una piccola e divertente parte interpretata da Justin Timberlake che canta in maniera intimista e dolce e che dà al film dei Coen un paio di fotogrammi di commercialità pura.

 

Inside Llewyn Davis rimane soprattutto un film emozionante dove lo spettatore vive con apprensione e compassione le vicende del protagonsita fino al suo provino più importante dove si esibisce nella ballata triste e intimista davanti al manager che lo liquida con una delle frasi più comiche e irriverenti di tutta la narrazione.

Le speranze non fanno mangiare. L’arte non paga e la musica folk è solo per pochi eletti.

O almeno sembra. Ma non è tutto vero. Llewyn Davis canta, continua a cantare.

In fondo il vero senso della vita rimane quello di essere fedeli al proprio, irrealizzabile, sogno.

 

“Alcune ottime cose nascono dall’ozio e dalla meditazione. La fotografia è il risultato di un ozio e di una meditazione intensi che finiscono con il produrre una bella immagine in bianco e nero, ben fissata e risciacquata in modo da non sbiadire troppo presto.”

 

Elliott Erwitt è riuscito ad emergere con originalità ed audacia nel panorama della fotografia del Novecento trattenendone i suoi consueti contrasti. È stato invitato a far parte della Magnum Photos –quella che diventerà e resterà la più prestigiosa agenzia foto-giornalistica al mondo– niente di meno che da Robert Capa e  nel primo piano di Jacqueline Kennedy ai funerali del marito sembra averle  preso gli occhi agitati ed ammutoliti ed averli attaccati alla storia.

 

I suoi scatti sollevano luci impensate che  aspettano il tempo e da beffarde lo scheggiano. Il suo intuito è  un adesivo capiente e sensibile quanto basta per accogliere qualsiasi gesto e sguardo e documentare per esempio tanto l’Italia poverissima del dopoguerra quanto i set di pellicole quali “ Gli spostati” con Marylin Monroe.

 

"Quando è ben fatta, la fotografia è interessante. Quando è fatta molto bene, diventa irrazionale e persino magica. Non ha nulla a che vedere con la volontà o il desiderio cosciente del fotografo. Quando la fotografia accade, succede senza sforzo, come un dono che non va interrogato né analizzato.”

 

Dal 17 Aprile al 1 Settembre 2013 Palazzo Madama ospita presso la Corte Medievale una ricca retrospettiva dedicata proprio ad Elliott Erwitt ed organizzata con Magnum Photos in collaborazione con il Comune di Torino e la Fondazione Torino Musei.

L’esposizione è contraddistinta dalla selezione di 136 fotografie rigorosamente in bianco e nero ed il percorso è composto da tre sezioni, ciascuna delle quali è impostata su un tema significativo all’interno dell’ampio repertorio rappresentativo del fotografo.

 

I suoi scatti raccontano il suo carattere gioioso, la sua sottile ironia, il suo senso dell’umorismo ed il suo piacere per il paradosso vantando al contempo una creatività paziente che spesso adora i ritmi scomposti della casualità. Ai cani ha dedicato un intero libro , intitolato Dog Dogs, cominciando proprio dai giorni in cui, sceso da un autobus della Greyhound, ha messo piede a New York.

 

“Uno dei risultati più importanti che puoi raggiungere, è far ridere la gente. Se poi riesci, come ha fatto Chaplin, ad alternare il riso con il pianto, hai ottenuto la conquista più importante in assoluto. Non miro necessariamente a tanto, ma riconosco che si tratta del traguardo supremo.”

 

Che siano immagini di bambini, paesaggi urbani, celebrità, scatti pubblicitari, famiglie della classe media americana, reportage politici, visitatori di musei, nudisti o stanze d’albergo, negli ultimi sessant’anni Erwitt è stato testimone ed artista mai stanco di un’umanità chiassosa e a tratti insolita e stravagante. I suoi lavori sommergono gli occhi divertiti di coloro i quali non amano impegnarsi in discussioni e chiacchiere perché come lo stesso Erwitt sostiene: “delle foto non bisogna parlare, bisogna osservarle”.

 

Orari d'apertura

Da martedì a sabato: dalle 10.00 alle 18.00

Ultimo ingresso alle 17.00

Domenica: dalle 10.00 alle 19.00

ultimo ingresso alle ore 18.00.

 

Biglietti

Intero: 8€

Ridotto: 5€

 

 

Elliot Erwitt Retrospettiva

Palazzo Madama - Museo civico d'arte antica

Piazza Castello

Torino

 

Fotografo francese di straordinario talento, esponente della cosiddetta “fotografia umanista”, pioniere del fotogiornalismo insieme a Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau ha legato la sua arte alla sua Parigi. Quella città che lo ha sempre considerato come figlio suo, gli ha regalato spunti per la sua arte, materiale “umano” per i suoi scatti.

“Per tutta la vita mi sono divertito, ho fatto il mio piccolo teatro”, amava ripetere il reporter, cui oggi Milano dedica una straordinaria rassegna antologica, “Paris en liberté”, allestita dal 20 febbraio al 5 maggio presso lo Spazio Oberdan in viale Vittorio Veneto, 2: oltre 200 fotografie originali (selezione delle oltre 450.000 che compongono gli Archivi Doisneau), tutte in bianco e nero, che testimoniano il binomio inscindibile tra uno dei più grandi artisti del Novecento e la città che ha amato e immortalato con il suo obiettivo. Gli scatti sono stati tutti effettuati nella Ville Lumière tra il 1934 e il 1991.

“Il mondo che cercavo di mostrare era quello in cui mi sarei trovato bene”, ripeteva spesso Doisneau, “abitato da persone cordiali e colmo della tenerezza che bramo. Le mie foto costituivano una prova della possibile esistenza di quel mondo”. Ecco dunque che il percorso espositivo, organizzato per aree tematiche, ripercorre i soggetti a lui più cari e conduce il visitatore in una emozionante “passeggiata” tra i giardini di Parigi, lungo la Senna, per le strade del centro, i vicoli e la periferia, negli angoli più nascosti e al tempo stesso curiosi: nei bistrot, negli atelier di moda e nelle gallerie d’arte della capitale francese. E poi tra le donne, gli uomini, i bambini, gli innamorati, gli animali e il loro modo di vivere questa città senza tempo, ormai scomparsa e fissata solo nell’immaginario collettivo; quella dei clochard, delle antiche professioni, dei mercati di Les Halles, dei caffè esistenzialisti di Saint Germain des Prés, punto d’incontro per intellettuali, artisti, musicisti, attori. Una Parigi umanista, generosa e sublime, che si rivela nella nudità del quotidiano. Una Parigi immortalata nella sua verità quotidiana dall'obiettivo di Doisneau, che ha saputo cogliere con ironia e al tempo stesso con poesia il carattere più intimo dei parigini.

 

Ma “quella di lasciare alle future generazioni una testimonianza della Parigi dell'epoca in cui ho tentato di vivere”, scriveva Doisneau il 23 ottobre 1984, “è stata l'ultima delle mie preoccupazioni. Se mi fossi sistematicamente imposto una missione del genere avrei accumulato milioni di immagini, ma in cambio chissà quante giornate senza piacere. No: nella mia condotta non c'è mai stato nulla di premeditato. A mettermi in moto è sempre stata la luce del mattino, mai il ragionamento. D'altronde che c'era di ragionevole nell'essere innamorato di quello che vedevo”?

Durante tutto il periodo di apertura, l’esposizione sarà accompagnata da una serie di eventi collaterali dedicati alla capitale francese e alla fotografia; tra questi, fino al 23 febbraio, la rassegna cinematografica “Paris au cinema”, a cura della Fondazione Cineteca Italiana, che presenterà alcuni capolavori ambientati a Parigi, protagonista indiscussa e assoluta delle pellicole: si andrà dalla stravagante Parigi di Zazie dans le metrò (L. Malle) a quella romantica di Ninotchka (E. Lubitsch), dalle atmosfere cupe e già prebelliche di Albergo Nord a quelle dell'amore tragico di Mentre Parigi dorme (entrambi di Marcel Carné), dagli ambienti eleganti e raffinati di Cenerentola a Parigi (S. Donen) a Miss Europa (A. Genina), ai quartieri equivoci di Questa è la mia vita (J-L. Godard) e Perfidia (R. Bresson), dal mondo piccolo borghese de Les 400 coups (F. Truffaut) al sottobosco di una malavita balorda ma irresistibile di Fino all'ultimo respiro (J-L. Godard).

 

Scheda tecnica

ROBERT DOISNEAU. Paris en liberté

 

Milano, Spazio Oberdan (viale Vittorio Veneto 2)

 

20 febbraio - 5 maggio 2013

 

Orari

martedì e giovedì h 10 – 22; mercoledì, venerdì, sabato, domenica h 10 – 19.30; lunedì chiuso

 

Informazioni al pubblico:

Provincia di Milano/Spazio Oberdan,  tel. 02 7740.6302/6381;    www.provincia.milano.it/cultura

 

http://www.cinetecamilano.it/

Instagram

 

 

Direttore Responsabile
INDIRA FASSIONI

Se vuoi scriverle: direttore@nerospinto.it

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