
“Testastorta”: come rifuggire dal Male
di Maria Lucia Tangorra
C'era una volta ed effettivamente c'è stato l'orrore delle storie private così come della Storia con la S maiuscola (senza contare che c'è ancora adesso non solo in Paesi lontani, ma magari nelle mura private accanto a noi).
“Testastorta” (andato in scena al Teatro Libero di Milano dal 30 gennaio al 2 febbraio 2020), dal romanzo di Nava Semel - nata a Tel Aviv da genitori sopravvissuti alla Shoah - (drammaturgia di Tobia Rossi che ancora una volta dimostra una grande sensibilità di penna e sguardo) è «una favola per adulti sospesa tra fantasia e storia» (dalla nota ufficiale). In platea, prima che il filo del racconto abbia inizio, intessendo di parola in parola – senza contare i gesti – un forte legame col pubblico, gli spettatori vengono catturati da come tutto sia ricoperto di cellophane (che ben contrasta anche con le quinte nere). Servono i personaggi-persone perché quel luogo – una cascina in mezzo alla campagna nell'Italia del Nord/il palcoscenico - riprenda vita.
Tommaso (interpretato molto bene da Alessandro Lussiana che, pur essendo adulto, riesce a conferirgli quella dolce ingenuità di chi non si è ancora totalmente scontrato col Male), ha dieci anni quando viene adottato da due donne bizzarre e selvatiche, una madre e una figlia (a entrambe dà corpo una credibile Valeria Perdonò, non solo per il cambio di tono di voce, ma anche per come fa passare i vissuti – e le aspirazioni – di ambedue le donne) con un passato turbolento. Si intuisce sin da subito che aleggia un segreto e a captarlo in realtà è proprio il bambino, sentendo dei rumori dalla soffitta.
Tra la giustificazione data da Maddalena e la sua immaginazione, inizia a fantasticare su chi potrebbe "nascondersi" (magari proprio una principessa) dando vita alla sua fiaba, rielaborando anche ciò che la «sua sorella adottiva» (così ce la presenta lui) gli ha raccontato sull'Aida.
Testastorta è il soprannome con cui deve "convivere" Tommaso («perché dice le bugie commettendo peccato e si inventa le cose»), il quale stimolato proprio da chi si nasconde nel luogo inaccessibile, si aggrappa a un mondo tutto suo per superare anche le umiliazioni subite in classe. La drammaturgia curata da Rossi è stata in grado di creare una partitura molto fluida, affinché gli attori, le voci, i silenzi, potessero viaggiare nel tempo e nello spazio.
Il tutto per raccontare una storia che ci riguarda più di quanto possiamo pensare. «Il perché di questo spettacolo è presto detto: si tratta di un racconto, di una fiaba che mette in luce alcuni buchi neri della nostra storia, eventi che la mente vuole dimenticare, vuole epurare perché troppo dolorosi, che invece devono restare indelebili, marchiati a fuoco, perché i diritti fondamentali degli esseri umani non vengano mai più calpestati, anche se i recenti avvenimenti di cronaca lascerebbero pensare il contrario. La narrazione sarà musicale, perché la musica è parte integrante di questa storia.
La musica dà speranza ai personaggi, copre i cattivi pensieri, la musica dà origine a questa storia. La musica permette di sopportare la claustrofobia, la reclusione nella soffitta, permette di salvarsi dalla follia. La musica delle cose, dei piccoli oggetti, la musica della natura. Quali mosse faranno i nostri personaggi per salvare le loro anime dalla guerra? Quanto ci si può spingere per farlo?» (dalle note di regia di Manuel Renga. Nella stagione 2019-2020 la regia è stata ripresa da Vittorio Borsari).
«Io non so quando questo inferno finirà, però mia madre dice sempre una cosa: “quando arriva l'inverno fa freddo, è vero, ma non dimentichiamoci che dietro l'angolo c'è sempre, sempre, la primavera”» - asserisce Maddalena.
“Testastorta” è l'esempio vivente di come quel teatro semplice (nell'accezione positiva del termine), creato da due bravi attori che rendono viva la parola scritta e anche quello che c'è dietro - diretti con sensibilità, lasciandosi trasportare dalle emozioni (ma senza scadere nella retorica) - possa ancora farci tanto riflettere sulla "Banalità del male" e al contempo, consegnarci la speranza che un fiore possa sbocciare per primavera.
Ci sembra doveroso concludere rilanciando questo interrogativo dell'autrice del romanzo N. Semel: «What price will people pay to maintain their humanity in dire circumstances, and how far are we willing to go to save a single soul?»; augurando a “Testastorta” di continuare a calcare le scene del nostro Stivale in lungo e in largo, forte del linguaggio diretto e universale che ha da giocarsi per aiutarci a fare memoria.
