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Franco Zeffirelli è morto. Si è spento a 96 anni uno dei più importanti rappresentanti dell’arte e della cultura del nostro Paese. Regista, sceneggiatore e scenografo è morto questa mattina nella sua casa romana sull’Appia Antica.
Lutto nel mondo dello spettacolo, è morto a 77 anni, a Milano, Paolo Limiti conduttore televisivo e paroliere di Mina.
Morto a soli 52 anni, è deceduto improvvisamente Chris Cornell, considerato uno delle voci più grandi del rock, frontman del gruppo Soundgarden e degli Audioslave.
"Oggi le colombe piangeranno lacrime viola"- scrive Rose McGowan. Prince è morto. Stupore, incredulità, dolore dei fan di tutte le generazioni.
Si è soliti dire che talvolta un’immagine o un gesto o un’espressione valgono come o più di mille parole: la vox populi è portatrice di verità difficili da confutare e anche in questo caso si può tranquillamente affermare che le fotografie di Lewis Hine racchiudono le storie di un’intera epoca attraverso sguardi, vestiti sporchi e sudore.
Sono i primi anni del ‘900, gli Stati Uniti sono in una profonda crisi economica e la forza lavoro deve essere sfruttata ad ogni livello: uomini, donne, persino i bambini vengono coinvolti nel lavoro in fabbrica, nei campi, nei cantieri.
Una nazione che cerca di emergere, di diventare grande, meta di tanti disperati che sbarcano a Ellis Island, con una valigia di cartone e tante, tantissime speranze di una vita migliore.
Il lavoro non manca e la fame è un buon pretesto per rimboccarsi le maniche: lo fanno tutti, ognuno da il suo contributo, i mattoni vengono pazientemente messi uno sull’altro per costruire quella che sarà la New York che conosciamo oggi.
In questo formicaio si muove Lewis Hine, sociologo e fotografo professionista: attraverso la macchina fotografica riesce a carpire meglio le dinamiche umane sottese al momento storico.
I bambini che urlano per vendere un giornale, che stanno su uno sgabellino per essere abbastanza alti per cucire con le macchine industriali, uomini senza imbrago che consumano un pasto su una trave sospesa.
E così Lewis Hine unendo le sue conoscenze di sociologia ad una spiccata sensibilità artistica realizza l’affresco di una società in divenire, con le sue gioie, le sue contraddizioni e la sua crudezza.
Tra campi di cotone e fumose sale attrezzi si consuma il dramma umano, lo spettacolo del sopravvivere, e Hine è sempre pronto ad immortalare l’attimo emblematico, un vero tesoro che rende giustizia ad un’epoca di depressione e sofferenza, a cui l’uomo strenuamente non si arrende.
Per la prima volta Lewis Hine approda a Milano, al Centro Culturale di Milano dal 20 novembre al 2 febbraio 2014. Provenienti dalla Collezione Rosenblum di New York, i sessanta vintage firmati da Lewis Hine (1874-1940) offrono al pubblico l’occasione di cogliere un grande affresco dell’America d’inizio Novecento. Dai celebri operai dell’Empire State Building agli immigrati di Ellis Island, dal reportage di Pittsbourgh al lavoro minorile in Pennsylvania, North Carolina e Virginia.
L’evento espositivo, ideato e fortemente voluto dal direttore del CMC Camillo Fornasieri, è curato da Admira. Kyle R. Scott, Console Generale degli Stati Uniti, interverrà il giorno dell’inaugurazione.
La mostra è aperta dal 21 novembre al 2 febbraio con i seguenti orari: lun.-ven. ore 10-13 e 15-18; sab. e dom. ore 16-20.
Mercoledì 27 novembre (ore 21, Palazzo dell’Informazione) sarà proiettato il film “L’America di Lewis Hine (60’ USA 1984)”. Il film è in versione originale con sottotitoli in italiano. Ingresso gratuito (occorre prenotarsi sul sito www.centroculturaledimilano.it o tel. 02.86.45.51.62)
Si è appena concluso il mese di ottobre, il mese mondialmente dedicato alla lotta contro il cancro al seno, e tra le iniziative che si sono promosse e sviluppate in questo periodo quella più toccante e d’impatto è stata sicuramente la mostra fotografica “The SCAR project”, svoltasi a Houston, Texas, tra il 17 e il 28 ottobre.
David Jay, il fotografo ideatore e realizzatore della mostra, solitamente ritrae modelle e star, glamour e lustrini, in questo progetto invece, il secondo di questo stampo, chiede ad alcune donne sopravvissute all’inferno del tumore di mettersi a nudo e farsi fotografare.
Il risultato è sconvolgente, non solo dal punto di vista artistico, è toccante, commovente e spaventoso allo stesso tempo: donne mutilate nel corpo che mostrano “le ferite di guerra”, fiere della vittoria, della battaglia, perchè la ferita è la testimonianza di avere combattuto, la testimonianza di aver avuto il coraggio di affrontare la malattia.
In questo contesto la fotografia assume un significato tutto diverso, il fotografo coglie l’essenza di una femminilità ritrovata, di uno sguardo provato ma non stanco, orgoglioso e commosso: “Per queste giovani donne avere il loro ritratto rappresenta una vittoria personale su questa terrificante malattia. Le aiuta a reclamare la loro femminilità, - racconta il fotografo David Jay - la loro sessualità, identità e potere dopo averne perso una parte così importante. Attraverso queste semplici foto, sembrano raggiungere l’accettazione di ciò che gli è accaduto e la forza di andare avanti con orgoglio.”
Guardate queste foto, coglietene l’essenza, andate oltre l’impressionabilità, la sensibilità, la paura e siate grate a queste eroine.
A Villa Manin (Passariano, Udine) saranno esposte dal 20 ottobre 2013 al 19 gennaio 2014, 180 fotografie del celebre fotografo Robert Capa, una retrospettiva europea organizzata per il centenario della sua nascita.
Endre Ernő Friedmann, questo il suo vero nome, nasce a Budapest nel 1913, ma a causa delle proteste contro un governo di estrema destra è costretto, in età adolescenziale, a migrare verso la Germania. Spostatosi a Berlino con l’intento di divenire un grande scrittore si appassiona invece alla fotografia. A causa delle leggi razziali che si iniziano a diffondere negli anni ’30, Endre è nuovamente obbligato a fuggire dalla Germania essendo di origini ebree. Si trasferisce in Francia dove la sua carriera di fotografo stenta a decollare: cambia nome in Robert Capa e fonda insieme ad altri freelance l’agenzia Magnum Photos.
Grazie al sostegno del gruppo di artisti del quale fa parte si reca in Spagna per documentare l’orrore del regime franchista e della guerra civile: è la svolta decisiva nella sua carriera di fotografo. Nel 1936 a Cordova ritrae un soldato ucciso, questa fotografia diventa famosa in tutto il mondo e, nonostante diatribe circa l’autenticità di questa immagine, diventa simbolo della guerra civile.
Durante la seconda guerra mondiale Capa è in Nord Africa, successivamente viene paracadutato in Sicilia dove scatta moltissime fotografie al seguito di un piccolo esercito americano. A Palermo presenta le sue immagini a Life e continua la sua documentazione delle battaglie interne all'isola: "Era la prima volta che seguivo un attacco dall'inizio alla fine ma fu anche l'occasione per scattare ottime foto. Erano immagini molto semplici. Mostravano quanto noiosa e poco spettacolare fosse in verità la guerra. Il piccolo, bel paesetto di montagna, era completamente in rovina. I tedeschi che lo avevano difeso si erano ritirati durante la notte abbandonando alle loro spalle molti civili italiani, feriti o morti. Ci eravamo distesi per terra nella piccola piazza del paese, di fronte alla chiesa, stanchi e disgustati. Pensavo che non avesse alcun senso questo combattere, morire e fare foto (...)”.
Dopo la Sicilia, Capa si reca in Normandia e documentando lo sbarco rimane terribilmente scosso, fa continue riflessioni sulla guerra e l’inferno “che gli uomini si sono creati da soli”. Il reportage sul D-day lo incorona fotografo di guerra ma sancisce anche un lungo momento di profondo turbamento emotivo.
Terminata la guerra, nel 1947, fonda insieme a Hernri Cartier Bresson e altri fotografi di calibro mondiale l’agenzia Magnum che diverrà una delle più celebri del mondo.
Passionale e innamorato della vita, non riesce a rimanere sordo al richiamo di ripartire per documentare un altro massacro e nel 1954 parte per l’Indocina con le truppe francesi ma nel tentativo di scattare una foto metterà il piede su una mina e l’esplosione sarà letale.
Oltre alle meravigliose fotografie sarà proiettata la pellicola “The journey”, documentario dedicato ai sopravvissuti dell’Olocausto che testimonia le capacità di cineasta dell'artista. Una carriera, quella cinematografica, che rimase sempre in secondo piano rispetto a quella di fotografo.
Indira Fassioni
I grandi artisti trovano impellente il bisogno di esprimere il loro genio attraverso il mezzo o lo strumento che più si addice alla loro personalità e spesso questa vera e propria necessità regala scatti dettati dall’impeto che sono impagabili, seducenti, veri e propri colpi di fulmine.
Machiel Botman, classe 1955, è un esempio di come a certe persone sia donata la capacità di vedere scorci, espressioni e moti dell’anima che agli altri non è permesso nemmeno di percepire.
La passione per la fotografia infatti emerge fin dai primi anni di vita, a 10 anni, quando il giovane olandese inizia a far pratica con la sua macchina fotografia.
Procedendo come autodidatta, Botman diventa esperto di stampa ma sono le sue immagini a disarmare ed impressionare i grandi della fotografia, come Doisneau, e da qui l’ascesa all’Olimpo degli artisti dell’immagine.
Annoverato come uno dei più grandi “narratori del nostro tempo”, è anche scrittore, Botman predilige la fotografia in bianco e nero, più consona e adatta alla descrizione del fluire del tempo.
Le sue immagini sono un modo per descrivere la vita, nel suo nascere e divenire, speso traggono ispirazione da fatti autobiografici e non mancano i riferimenti a luoghi molto amati dal fotografo.
Botman ama giocare con la luce, non esistono per lui regole fisse in cui imbrigliare un impeto primordiale, cambia profondità di campo, tempo di esposizione, sperimenta in continuazione e giunge alla definizione di uno stile molto personale, impossibile da paragonare o confrontare con qualsiasi altro fotografo.
L’istinto detta il primo scatto che poi viene filtrato da un lavoro del tutto emozionale, quasi privo di ragionamento. Solo dopo l’accettazione del sentimento che ha spinto allo scatto è possibile razionalizzare e guardare con occhio leale alle proprie creazioni
Molto apprezzato dalla critica di tutto il mondo ha ricevuto elogi da esperti del settore che continuano a promuovere e diffondere la sua arte.
Il pensiero espresso da Vince Aletti, scrittore del New Yorker rappresenta perfettamente l’animo creativo e sognatore di questo delicatissimo artista: ''Il fotografo olandese mostra le immagini in bianco e nero (...) in buona parte sembrano immagini colte nel loro fluire – il suo non è un mondo ritrovato, piuttosto è perduto. Le figure sono presenze a volte appena percepite, offuscate o riflesse; i paesaggi sono dissolti o frantumati. Il lavoro è onirico e disorientante. Alcune immagini sono il risultato di diverse esposizioni: una sedia fluttua davanti a una facciata in costruzione, un cavallo bianco è sovrimposto alla vista di una chiesa lontana, sulla collina. Perfino le immagini apparentemente più semplici e dirette possono condurti in un mondo di incertezze.''
A volte i numeri contano e nel caso del fotografo Spencer Tunick è proprio così. Fotografo dal 1988, newyorkese DOC, Spencer Tunick ha sempre avuto un’ossessione: i nudi, in massa!
Lontano dai soliti schemi, estraneo ai luoghi comuni, decisamente sopra le righe ritrae il corpo, o meglio, molti corpi, nel modo più semplice e naturale, senza veli!
Collettività e nudità sono i punti cardine dell’attività ventennale di Tunick che attraverso le sue opere compie delle vere e proprie “manifestazioni sociali”.
I suoi “esperimenti visivi” sono il concretizzarsi di una precisa concezione circa l’essere umano, il corpo e la società.
Vero è che ritrarre migliaia di volontari nudi non solo è un’impresa colossale ma anche l’occasione di poter osservare dinamiche antropologiche ormai in disuso: “Spogliarsi è un’azione livellatrice che permette di comprendere l’omogeneita’ umana, tramite una visione democratica del nudo, che, totalmente privato di umanita’ e sensualita’, ci riporta ad uno stato di uguaglianza non ottenibile in nessun contesto odierno”
L’ultima sua performance risale a circa due anni fa (settembre 2011), quando realizzò il “Mar Nudo”, ossia il ritratto di un migliaio di giovani israeliani nelle acque del Mar Morto.
Questo fenomeno di arte contemporanea ha toccato molti luoghi della Terra, Londra, Lione, Melbourne, Montreal, Caracas, Santiago, Sao Paulo, Buenos Aires, Sydney, Newcastle, Roma e Vienna, nonchè i “Naked States”, ossia gli Stati Uniti ma il record personale di Spencer Tunick è stato infranto a Città del Messico, quando immortalò circa 18 mila persone, tutti volontari.
Disposti in formazione, a coppie o semplicemente ammassati l’uno all’altro i corpi di Tunick sono curiosi e disinvolti, genuini e trasparenti, manifesto di un ritorno alle origini e alla spontaneità che si sta perdendo.
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