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Fino al 15 gennaio presso il LaGare Hotel Milano McGallery by Sofitel saranno in mostra le fotografie della compagnia Momix di Max Pucciarello.

L’1 e 2 marzo 2014, il Teatro Officina propone al pubblico, in un unico appuntamento, IL NEOPLASTICO e LA MORTE DI IVAN IL’IČ, due testi che chiudono la rassegna di incontri dedicati al racconto della malattia e dell’assistenza al malato, inaugurata a gennaio con lo spettacolo Medicina Narrativa, seguito, a fine febbraio, da La Vita distratta, tratto dal romanzo “Si è fatto tutto il possibile” di Marco Venturino.

L’esplorazione stringe ora intorno al tema della morte come momento di svelamento dell’essenza di sé, delle cose e del mondo che ci circonda.

 

IL NEOPLASTICO Con Stefano Grignani

Breve monologo in cui un medico, intercettando lo sguardo di uno dei suoi pazienti in stato di fine vita, vi legge con esatta chiarezza ciò che resta spesso come un non-detto, quel grumo, non solo di sofferenza ma anche di sapienza, che la malattia mortale segretamente porta con sé.

 

LA MORTE DI IVAN IL’IČ

Tratto da “La morte di Ivan Il’ič”, di Lev Tolstoj Regia Massimo de Vita

Con Massimo de Vita, Stefano Grignani, Daniela Airoldi Bianchi, Lorenza Cervara e Luca Casaura.

“Dio, mio Dio, non cesserà mai questo dolore...La vita se ne sta andando e io non posso trattenerla. Dove sarò quando non ci sarò più? Possibile che sia la morte? Dove sei? Dov’è la solita paura? Ora la morte non c’è più, c’è la luce. La luce, che gioia! È finita la morte. Non c’è più”. Attraverso la malattia, Ivan Il'ič scopre la vanità del suo successo mondano, la frivolezza della sua famiglia, la pochezza dei medici, ed ecco che in fondo al tunnel di se stesso, improvvisamente, vede una luce.

 

TEATRO OFFICINA

Sabato 1 marzo 2014 – ore 21 Domenica 2 marzo 2014 – ore 16

 

Stagione 2013-2014

Il Neoplastico - monologo -

Con Stefano Grignani

La morte di Ivan Il’Ič

Tratto da “La morte di Ivan Il’ič”, di Lev Tolstoj

Regia di Massimo de Vita

Con Massimo de Vita, Stefano Grignani, Daniela Airoldi Bianchi, Lorenza Cervara e Luca Casaura

Durata 1 ora circa

Per info e informazioni Ufficio Stampa Teatro Officina: Valentina Taglieri

Informazioni e prenotazioni: TEATRO OFFICINA Via S. Erlembardo 2 - 20126 Milano MM1 Gorla | Bus 44, 86

Orari segreteria: lun-ven 9.30-17.30

Tel. 02.255320002.2553200 | cell. 349.1622028349.1622028 | fax. 02.27000858

www.teatroofficina.it | Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Orario spettacoli: Feriali ore 21.00 – Festivi ore 16.00

Ingresso con tessera associativa annuale: Socio ordinario €10

Prenotazione gratuita e obbligatoria sul sito www.teatroofficina.it

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«Io sono la prova vivente che Hitler non ha vinto.

Ne sono consapevole ogni giorno.

Se non avessi raccontato la mia storia,

chi conoscerebbe la verità?»

 

Friedrich Paul von Groszheim

Negli anni 20 la Repubblica di Weimar era convenzionalmente nota in tutto il mondo come il paradiso degli omosessuali. La maggioranza degli abitanti di Berlino però non conosceva il Paragrafo 175, legge tedesca antisodomia risalente al 1871. Per abolirlo nacque un movimento guidato dal professor Magnus Hirschfeld, scienziato e sessuologo socialista, nonché ebreo e omosessuale. Egli fondò un istituto per l’emancipazione degli omosessuali in Germania, un vero e proprio comitato scientifico-umanitario finalizzato alla difesa dei diritti di genere e all’abrogazione del suddetto paragrafo.  Nonostante i dissapori interni sull’approccio cognitivo utilizzato nell’inquadramento della figura degli omosessuali, sfociati in una scissione interna, il comitato riuscì a raccogliere ben cinquemila firme per l’abolizione di quella legge così discriminatoria.  Tra i firmatari anche Albert Einstein, Hermann Hesse, Thomas Mann, Tolstoj. Sembrava profilarsi una nuova era di libertà. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare quello che sarebbe successo da lì a breve. Quando, nel 1933, i nazisti assunsero il potere una delle prime azioni intraprese, dopo aver legiferato sull'aggravamento del Paragrafo 175, fu quella di distruggere l'Istituto Magnus e dare fuoco alla biblioteca in esso contenuta. Essere omosessuali, da trasgressione, divenne dapprima un crimine ed infine un delitto contro natura da punire con l’imprigionamento e la deportazione. Migliaia di gay vennero sottoposti alla sterilizzazione forzata e alla castrazione, utilizzati  come cavie in esperimenti pseudo-scientifici o chirurgici e torturati. Il triangolo rosa di stoffa, cucito sulle divise degli internati per omosessualità, divenne stigma distintivo rispetto a criminali (triangolo verde), prigionieri politici (triangolo rosso), nomadi e zingari (triangolo marrone), ebrei (stella di David).  Secondo una stima, comunemente accettata, i prigionieri che portarono il triangolo rosa furono tra i 5.000 e i 15.000. Il trattamento particolarmente crudele riservato agli omosessuali all'interno dei campi ha fatto sì che il loro tasso di mortalità fosse di circa il 60% (contro il 41% dei deportati politici e circa il 35% dei testimoni di Geova) secondo solo al tasso di mortalità degli internati di origine ebraica. Numeri importanti, spaventosi, che delineano chiaramente i confini di un olocausto dimenticato, che solo da qualche anno si cerca di portare allo scoperto. Tra le iniziative che, in occasione della giornata della memoria, accendono i riflettori su questa pagina così dolorosa ed infame della storia moderna, la mostra intitolata Rosa Cenere, in programma presso il Cassero di Bologna dal 27 al 31 gennaio, è davvero tra le più belle e commoventi. Ideata e coordinata dall’artista Jacopo Camagni, con la collaborazione di Peopall (gruppo volontari casserini) e del Centro di Documentazione, Rosa Cenere coinvolge 19 illustratori vicini alle istanze LGBT e racconta le esperienze di 11 vittime delle deportazioni naziste, utilizzando come punto di partenza il triangolo rosa e accompagnandolo ai toni del bianco e del nero. Tra le undici storie vere illustrate alcune sono già note, come quelle di Heinz Heger e Pierre Seel che con le loro pubblicazioni hanno aperto la strada alle prime ricerche sugli omosessuali deportati. Altre invece sono state recuperate negli archivi online, come quella di Henny Schermann, una delle poche donne deportate perché lesbica. L’urgenza di raccontare attraverso l’arte quella memoria che negli anni ha rischiato di perdersi nel silenzio della vergogna è una chiave d’accesso nuova, diversa e per questo non banale, ad una tematica che merita riflessioni profonde e durature. Un lavoro strepitoso e drammatico al contempo che prova a rendere giustizia alle vittime di quell’immane tragedia trasformando la suggestione dell’arte in ricordo ossequioso e toccante.

Ecco l’elenco degli artisti coinvolti con le relative scelte biografiche:

Marco B. Bucci e Damiano Clemente - Kurt von Ruffin

Jacopo Camagni e Michele Soma - Heinz Dörmer Flavia Biondi (Nethanielle) e Davide Mantovani - Pierre Seel Vinnie Palombino e Isabel Pilo - Annette Eick

Massimo Basili e Sebastian Dell’Aria - Heinz Heger

Giopota e Mabel Morri - Henny Schermann Giulio Macaione -  Friedrich Paul von Groszheim Francesco Legramandi (Franze) - Paul Gerhard Vogel Wally Rainbow, Luca Vanzella e Roberto Ruager - Rudolf Brazda Mattia Surroz - Karl Gorath

Andrea Madalena - Albrecht Becker. Rosa Cenere: 27-31 gennaio 2014 @ Il Cassero, Via Don Minzoni 18 Bologna

Se il cinema è finzione, sarebbe stato allora l’anticinema a rappresentare l’Italia davanti al mondo in occasione della prossima edizione dei Premi Oscar, il 24 febbraio a Los Angeles. “Cesare deve morire”, firmato da Paolo e Vittorio Taviani, dopo aver conquistato l’Orso d’oro al Festival di Berlino, è stato scelto dall’Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali) per essere inserito nella rosa delle pellicole in lizza per la statuetta assegnata al “Miglior film straniero”, sbaragliando concorrenti come “Reality” di Matteo Garrone e “Bella addormentata” di Marco Bellocchio. Nonostante l’esclusione dalla cinquina delle nomination annunciata dall’Academy - è dal 2006, con la “Bestia nel cuore” di Cristina Comencini, che l’Italia non compare più tra i finalisti – la decisione dell’organo cinematografico italiano non può passare inosservata. La storia di “Cesare deve morire” inizia con due fratelli che amano il cinema, e in un piccolo paese di provincia trovano ogni mezzo per inseguire le immagini e scoprire la magia della verità raccontata dai grandi maestri, da Ejzenštejn a De Sica passando per Rossellini e Dreyer. Sullo sfondo la colonna sonora di un’Italia attraversata dalle contraddizioni storico-culturali di metà Novecento, sulle note di Verdi e con la continua incursione nel teatro e nella letteratura europea. Le parole non rimangono mai orfane per i due fratelli rapiti dalle pagine di Shakespeare e Tolstoj, trascinati nel racconto senza possibilità di disincanto. Sull’onda di quest’emozione per la vita, per il racconto della vita, arrivano a Roma e per mezzo secolo continuano a parlare della realtà dietro la macchina da presa, costretti nel confine asfissiante delle definizioni di genere, viaggiando tra storia e antistoria con la voglia di andare oltre quel confine, di oltrepassare il limite della realtà per dire quello che solo in un film può essere detto. Sono novantenni, quei due fratelli, quando gli si richiudono dietro le spalle i cancelli del carcere di Rebibbia. Sono lì per assistere ad uno spettacolo teatrale – finzione, come al cinema – ma quando Shakespeare torna a parlargli con la passione della gioventù dalla bocca sbarrata di un condannato all’ergastolo, capiscono che quella storia deve essere raccontata. Il dramma del tradimento – Giulio Cesare e i congiurati che lo uccideranno – diventa materia viva tra le celle, il teatro e i cortili della prigione romana, sfiorato dallo sguardo dei fratelli insieme registi e spettatori, pienamente travolti dal pathos tragico. E’ quella stessa emozione a raggiungere il pubblico in sala, i critici che hanno pluripremiato la pellicola, dai David di Donatello ala vittoria di Berlino, e ancora in promozione in giro per il mondo con Paolo e Vittorio Taviani a rappresentare l’intero cast di attori detenuti. Un racconto attraversato dalla vita, presente e imperitura in carcere, e passata, laddove il passato assume i contorni dell’infinito, dilatandosi nell’universalità della tragedia. Non è più storia dell’antica Roma, non è il teatro di Shakespeare e non è più un film, i confini ancora una volta oltrepassano le sbarre della vera prigione, quella della forma, per aprire nell’arte uno sconfinato squarcio di realtà. Non c’è un fotogramma che lo mostri, non c’è l’artificio di scena, ma di sangue ne scorre tantissimo in “Cesare deve morire”, in un flusso ininterrotto tra personaggi e attori, nella morte che racconta della vita. A noi di Nerospinto, Paolo e Vittorio Taviani piacciono per l’instancabile fame di verità che non li abbandona da quasi un secolo, per l’entusiasmo dei vent’anni mai perso e sempre rinnovato in una tra le più belle vecchiaie del cinema italiano, per la voglia di rischiare con un film difficile da produrre e distribuire che ha inaspettatamente trionfato in Europa.

 

 

Direttore Responsabile
INDIRA FASSIONI

Se vuoi scriverle: direttore@nerospinto.it