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Sanpellegrino presenta una nuova linea di bibite biologiche, con nuovi gusti e drink experience, lanciando anche un restyling della classica bottiglia in vetro.
Lo scorso maggio a Milano ha aperto il Bar Meraviglia, locale firmato dal famoso brand di bibite Sanpellegrino che rimarrà in città solo fino ad ottobre.
Dal 25 al 27 novembre Teatro Franco Parenti di Milano presenta Doppio Taglio, uno spettacolo di Cristina Gamberi e Marina Senesi che affronta l’attuale tematica della violenza contro le donne.
La descrizione all’interno della pièce di questo nefasto fenomeno si distingue per la scelta di un differente punto di vista. Non è infatti incentrato sulla narrazione da parte della vittima o del carnefice ma sui meccanismi attraverso i quali il racconto dei media plasma e distorce la nostra percezione del fatto, trasformando anche la più sincera condanna in un'arma, appunto, a “doppio taglio".
Accompagnati dalle voci fuoricampo di Filippo Solibello e Marco Ardemagni, noti conduttori della trasmissione radio Caterpillar, si scopre come la cronaca spesso tende ad alleggerire le responsabilità dell’aggressore quando si ritiene che la donna abbia varcato i confini imposti al suo genere.
Lo spettacolo mostra che paradossalmente è la vittima ad essere ritratta come inerte, inerme, isolata e coi segni di una sessualità che indica una morale dubbia, mentre il violento è un’ombra sfuggente, appena accennata e rappresentato solamente in piccola parte.
Marina Senesi è autrice e attrice che lungo la sua carriera è sempre stata capace di fondere l’impegno civile e la forza dell’ironia. Per Doppio Taglio ha collaborato con Cristina Gamberi, dottore in Studi di Genere all'Università di Napoli Federico II e autrice della ricerca accademica da cui è stato tratto lo spettacolo.
L'originalità di questa proposta ha convinto a partecipare due artiste d'eccezione: Lucia Vasini, che firma la regia, e la cantautrice inglese Tanita Tikaram che per l’occasione ha scritto un singolo inedito dalle sonorità folk-pop, intitolato emblematicamente My Enemy.
INFO
Doppio Taglio
Di Cristina Gamberi
Adattamento di Marina Senesi
25/27 novembre
Teatro Franco Parenti di Milano
Via Pier Lombardo, 14
Tel 02. 599951
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Da Martedì 18 a Domenica 23 Marzo un appuntamento imperdibile al Teatro Cooperativa. Uno spettacolo che riflette sulla società e sulla famiglia, un tema delicato e attuale quello della violenza domestica messo in discussione sul palcoscenico, un messaggio che promuove la cultura della non violenza: questi sono gli ingredienti per una grande ed intesa rappresentazione.
Quelli di Grock presenta Home Sweet Home al Teatro Cooperativa di Milano dal 18, uno spettacolo con regia e testi di Valeria Cavalli e Claudio Intropido. Il cast è formato da talentuosi attori: Giulia Bacchetta, sensibile e vibrante interprete del monologo Quasi perfetta, e Andrea Robbiano, attore emergente, applauditissimo nell’ultima produzione di Quelli di Grock Fuori Musica (il Leopardi come non ve l’ha mai raccontato nessuno). I costumi sono di Lara Friio, le musiche di Gipo Gurrado, le immagini video di Zoe Vincenti e la consulenza scientifica è di Dr.ssa Maria Barbuto.
Lo spettacolo Home Sweet Home vuole dare voce, indagare, andare in profondità ad un argomento delicato, attuale e spaventoso.
“Le statistiche dicono che una donna su tre vive come vivo io, in bilico. È vero, io sono un’equilibrista, sono stata addestrata a farlo, cammino su un filo, procedo attenta per evitare i passi falsi perché so che se sbaglio, se non presto attenzione, mi faccio male […]”. In Italia sono 6.743.000 le donne che tra i 16 e i 70 anni hanno subito violenza psicologica o sessuale fuori o dentro le mura domestiche (fonte Istat 2007). Un dato che spaventa e allarma e ha spinto Quelli di Grock a raccontare, attraverso il linguaggio teatrale, un dramma così diffuso, sommerso e taciuto, protetto dal privato familiare e spesso segregato dietro ingressi con targhette d’ottone.
Sul palco una madre e un figlio che narrano una storia, all’apparenza normale, ma che nasconde in realtà verità terribili, e sottolinea l’insana complicità che spesso nasce fra la vittima e il carnefice, il complesso rapporto tra chi fa del male e chi pensa di meritarlo, la paura di confessare che il nemico è proprio lì, seduto vicino sul divano di casa.
A guidare lo spettacolo è la voce maschile che aiuta lo spettatore all’interno di un’ampia e complessa riflessione sulla società e sulla famiglia, a tratti sarcastica e pungente, a tratti libera e metaforica. Il suo racconto si addentra in un magma di luoghi comuni che vanno dalla religione ai detti popolari, dall’iconografia classica alle favole, passando attraverso la retorica del principe azzurro e lo spietato ricatto del perbenismo. Il protagonista affronta e approfondisce l’urgenza di argomenti come l’infedeltà, la tutela dei figli e l’inviolabilità del legame matrimoniale, mentre la figura femminile evoca una realtà famigliare congelata da un claustrofobico gioco di ruoli.
Quelli di Grock con questa rappresentazione si pongono l’obiettivo di scuotere l’indifferenza e attraverso un linguaggio semplice e diretto, quello teatrale, offrire la possibilità di una riflessione, affinchè anche dal palcoscenico posso arrivare un messaggio forte di sensibilizzazione e cambiamento che promuova la cultura della non violenza.
Home Sweet Home ha ottenuto il sostegno di Next, il Patrocinio Ufficiale della Provincia di Milano ed è stato presentato il 23 Giugno 2010 alla Camera dei Deputati.
Chiudere gli occhi, non interessarsi del problema non è la soluzione. Lo spettacolo vuole impegnarsi a far conoscere e quindi combattere per un’atrocità taciuta. Non perderti la rappresentazione dal 18 Marzo!
Teatro della Cooperativa
ORARI: feriali h. 20.45 e festivo ore 16 – lunedì riposo
PREZZI: intero 18 € - ridotti 13/9 €
www.teatrodellacooperativa.it - Via Hermada 8, Milano – tel. 02.6474999702.64749997
Routine is fantastic è il titolo della mostra di Franco Pagetti, fotografo di fama internazionale, inaugurata il 4 dicembre scorso alla Fondazione Stelline di Milano
Le donne del Pakistan, Libano, Iraq, Afghanistan, Siria, Albania, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar e Libia, mostrate nella loro quotidianità, nei loro piccoli e grandi gesti, ripetuti giorno per giorno nei campi profughi, negli alloggi per gli sfollati.
Ogni giorno vissuto con forza, tenacia, umiltà e orgoglio.
La mostra si sviluppa in una serie di 32 scatti realizzati in diversi luoghi, come Iraq, Somalia, Pakistan, Libia ecc.
Le fotografie hanno l'obiettivo di raccontare la routine, la quotidianità di donne a cui è stata stravolta la vita dalle condizioni estreme dei campi profughi e degli alloggi per gli sfollati; il concetto di 'normalità' è molto diverso rispetto a quello che ci circonda: la violenza è all'ordine del giorno, tra stupri, abusi e mutilazioni genitali femminili sono milioni le donne che ogni anno subiscono violenze ingiuste e abominevoli.
Eppure in tutto questo orrore, tra stracci, sguardi persi, immondizia, rovine e sorrisi spezzati Franco Pagetti ci mostra il colore, ricordandoci che non è un mondo così lontano come vogliamo credere, è una cosa reale, parte del nostro stesso mondo, dei nostri stessi giorni. Tutto è attuale e si può fare qualcosa per migliorare le condizioni di queste donne 'combattenti'.
Pagetti ha portato questo interessante progetto fino ai nostri occhi, anche per la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi, a sostegno delle donne rifugiate, per le attività dell'UNHCR, ente promotore del progetto.
Altri enti hanno contribuito alla realizzazione di questa esposizione: Regione Lombardia, Provincia di Milano, Comune di Milano, Associazione Donne e Tecnologie.
Con una donazione mimima di 300 € è possibile acquistare una stampa di una delle opere esposte. Il totale dei fondi è destinato a finanziare interventi, per donne e bambine rifugiate, in settori come l'istruzione, la prevenzione e il contrasto alla violenza, l'assistenza materiale e medico-psicologica alle vittime di violenza ecc.
La mostra sarà visibile fino al 12 gennaio, per chi non l'avesse ancora vista, affrettarevi: l'ingresso è libero e la fondazione è aperta dalle 10 fino le 20.
Per ulteriori informazioni potete telefonare al numero: +39 45462411
oppure scrivere a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
o consultare il sito ufficiale: http://www.routineisfantastic.it/
Quante forme ha la violenza, e in quanti modi la si può declinare?
La risposta non è scontata soprattutto guardando Miss Violence, l’ultima pellicola del regista greco Alexandros Avranas, in uscita nelle sale italiane dal 31 di ottobre.
Nel film di violenza reale, cruda e fisica non c’è ne è affatto. Non si ci sono scene dure, non ci sono scontri fisici di nessun genere e anche i “mostri” presentati e descritti dall’autore sono persone comuni, di buone maniere, appartenenti alla buona società ed economicamente agiate.
La violenza descritta nella pellicola di Avranas è talmente sottile, psicotica, emotiva e difficile da comprendere che lo spettatore è scioccato in maniera sublimale senza comprendere realmente perché. Certo, il motivo reale e apparente c’è. Il suicidio di una ragazzina di undici anni.
Ma questa è l’unica scena brutale di tutto il film. Quella davvero sconvolgente. Il percorso per arrivare alla decisione estrema di Angeliki è il vero orrore, il buio dell’anima che sembra appartenere a tutti i componenti della sua famiglia, la violenza estrema che inchioda lo spettatore e che lo devasta fino all’ultimo fotogramma.
Nella famiglia di Angeliki tutto sembra andare nel migliore dei modi. Una benestante famiglia borghese in cui i membri hanno ruoli diversi ma collegati, dove tutto è all’apparenza perfetto e normale, se non fosse che Angeliki il giorno del suo undicesimo compleanno, si suicida buttandosi dalla finestra. E lo fa dopo aver spento, con aria serena e con il vestito della festa, le candeline sulla sua torta, circondata da partenti e familiari. Allo spettatore, la tragedia viene annunciata vagamente e velocemente solo dalla sguardo e dal sorriso della bambina che racchiude tutto il dramma e lo sconforto della sua vita. La reazione della famiglia a questa incredibile tragedia è misurata e cauta e fotogramma dopo fotogramma il regista svela l’inferno privato vissuto dalla bambina nei suoi pochi e intensi undici anni di vita, un inferno che sembra lambire e coinvolgere anche gli altri membri della famiglia. E si comprende che la pulizia del perbenismo borghese e la normalità che il patriarca mantiene è solo una patina.
Il problema di Miss Violence però rimane la scarsità delle doti emotive, sentimentali e passionali dello stesso regista. Alexandros Avranas confeziona una pellicola psicologica ma senza patos che nelle sue intenzioni dovrebbe coinvolgere solo gli strati più profondi e sensibili dello spettatore senza grandi colpi di scena o effetti speciali ma che non riesce neppure in questo.
La sterilità della sua regia, i movimenti di macchina sperimentali e troppo colti, la narrazione filmica che non lascia spazio ai protagonisti fanno sì che lo spettatore si perda completamente tra i cambi di scena e quello che solo il regista vede sul serio.
Miss Violence così diventa un diario quasi privato di Avranas che usa la pellicola come una sorta di diario di bordo personale per descrivere la propria visione della società attuale. Lui, greco di origine e di cultura è come se in un certo qual modo imbastisse il film di riferimenti e fotogrammi sulla difficile situazione sociale e umana che vive il suo Paese in questi ultimi anni.
Ma lo fa nella maniera più sbagliata e sterile possibile.
Infine, sembrerebbe che la storia di Angeliki sia basata su un fatto di cronaca davvero accaduto in Germania, un orrore reale che diventa orrore cinematografico.
Forse, se la sceneggiatura fosse stata originale o pura finzione cinematografica qualcosa della pellicola di Avranas si sarebbe potuto salvare, ma così c’è solo da riflettere sulla psiche del regista e sulla sua volontà insana di condirla con gli spettatori.
"Nessuno ha il potere finché non lo agguanta con il sesso o la violenza"
Le alternative sono due e su questo L'uomo con i pugni di ferro, esordio alla regia di RZA, non transige.
Bramosia, denaro, violenti scontri e sensuali prostitute sono i fili che intrecciano la trama del film e le storie dei personaggi che finiscono così con l'avvicendarsi, allearsi e scontrarsi.
Un carico d'oro da proteggere è ciò che muove la trama, un forziere che doveva essere protetto e che invece diviene motivo di tradimento e conseguenti lotte sanguinose.
I vari clan che vivono a Jungle Village, in perpetua competizione, vedono ora prevalere i Lions che, forti di un nuovo capo (che senza mezzi termini si è sbarazzato del precedente), osano sfidare il potere dell'imperatore cinese sottraendogli il suo carico di pepite.
Le conseguenze sono numerose: la sete di vendetta del principe dei Lions, diretto discendente del capo assassinato; l'ira dell'imperatore che smuove il suo esercito verso il paese; le mire della titolare di un bordello che, aizzando le sue protette, vuole impadronirsi del cospicuo bottino; gli stessi Lions pronti a dichiarare guerra per non perdere la propria posizione; il completo stravolgimento della vita di un umile fabbro, che altro non vorrebbe se non liberare la propria concubina e smettere di forgiare armi per le diverse fazioni. Il tutto contornato dalla misteriosa figura di un emissario dell'impero, che avrebbe dovuto vegliare sul bottino e che tarda a comparire, e un corpulento figuro che vende il suo invincibile corpo a chi gli offre la somma di denaro più alta.
Le vicende si snodano in un vorticoso susseguirsi di battaglie a colpi di kung fu, lanci di lame affilate, colpi d'armi e conturbanti episodi fra le lenzuola per arrivare ad un epilogo che vede trionfare in modo davvero improbabile l'umile artigiano.
Per gli amanti dello stile di Tarantino, che peraltro presta il proprio nome per presentare il lungometraggio, i riferimenti al grande maestro sono numerosi: dalla scelta di ambientare la storia in una Cina dal sapore controverso e corrotto (enfatizzato dalla presenza di una splendida quanto pericolosa Lucy Liu), alle inquadrature che privilegiano i dettagli splatter, sino al ritiro spirituale che il protagonista affronta prima del proprio riscatto (molto simile al percorso seguito in Kill Bill da Uma Thurman). Lo stile complessivo, inoltre, riflette molto l'influsso del regista con il quale RZA ha avuto modo di collaborare per l'appunto nella realizzazione di Kill Bill.
Un film senza grosse pretese che complessivamente coinvolge per le scene avvincenti ed originali, il carisma e la particolarità dei personaggi (una menzione particolare va ad un inaspettato e sorprendente Russell Crowe) e la buona quantità di azione, gestita in modo esemplare, che compensa e rinvigorisce la semplicità della trama.
“Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. Per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito”. Così diceva Sergio Leone. Al regista si deve l’origine del genere spaghetti-western negli anni Sessanta, una sorta di caricatura dei western americani, che ha influenzato registi come Quentin Tarantino e Robert Rodriguez e ha permesso al cinema italiano di raggiungere la fama mondiale.
Per ricordare la sua genialità noi di Nerospinto segnaliamo domenica 17, 24 e 31 marzo presso lo Spazio Oberdan e a cura della Fondazione Cinetica Italiana i suoi due più grandi capolavori in edizione restaurata: C’era una volta il West (1968) e C’era una volta in America (1984).
I suoi western sono contraddistinti da un crudo realismo e una marcata violenza, con personaggi solitari e fedeli solo al denaro e alla vendetta, ma anche da uno splendore paesaggistico, con distese sconfinate alternate a primi piani, il tutto unito dalla splendida colonna sonora con tonalità semplici ma di grande impatto di Ennio Morricone.
C’era una volta il West è la sua opera più matura e fedele alla tradizione, nella quale il regista cerca di unire elementi del western classico con il nuovo spaghetti-western. In C’era una volta in America, invece, il regista esce dal genere a lui caro e cerca di realizzare l’epopea storica degli Stati Uniti, spingendosi verso un cinema più complesso.
Schede dei film
Domenica 17 e domenica 31 marzo (h 16.15)
C’era una volta il West
R.: Sergio Leone. Sc.: Sergio Donati, S. Leone. Int.: Charles Bronson, Henry Fonda, Claudia Cardinale, Jason Robards, Woody Strode, Gabriele Ferzetti. Italia/USA, 1968, col., 167’.
La frontiera con l’ovest si sta spostando, la ferrovia sta per collegare l’Atlantico al Pacifico, cancellando ciò che rimane del vecchio Far West. Intorno a questi binari s’incrociano le strade di sei personaggi: Frank, Armonica, Cheyenne, Morton, uomo d’affari, che rappresenta il progresso e Jill, proprietaria di un terreno che vale milioni di dollari. Ognuno è condizionato dai propri problemi personali e cerca di raggiungere il proprio interesse, anche se ne usciranno tutti sconfitti, tranne Jill perché al western non appartiene e può sopravvivergli.
Ingresso € 7; € 5,50 con Cinetessera
Domenica 17 e domenica 31 marzo (h 16.15)
C’era una volta in America (Once Upon a Time in America)
R.: Sergio Leone. Sc.: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Franco Arcalli, Franco Ferrini, Enrico Medioli, S. Leone. Int.: Robert De Niro, James Woods, Elizabeth McGovern, Joe Pesci, Treat Williams, Danny Aiello. Italia/USA, 1984, col., 255’.
New York, 1933. David “Noodles” Aaronson è un criminale ebreo, una sera dopo un colpo andato storto, viene braccato da dei sicari di un sindacato criminale ed è costretto a fuggire. Trentacinque anni dopo torna, attirato dal misterioso invito di un certo senatore Bailey. Nel tentativo di scoprire di più circa questo mistero, Noodles ripercorre la sua vita, i suoi ricordi, dalla sua infanzia nel ghetto ebraico, fino alla scalata sua e dei suoi amici nel crimine organizzato.
Ingresso € 8; € 7 con Cinetessera
Informazioni al pubblico: Spazio Oberdan, Viale Vittorio Veneto 2, Milano; sito web http://oberdan.cinetecamilano.it; Biglietteria: 02 7740 6316
2013: un anno che passerà alla storia. Dopo che papa Benedetto XVI ha deciso di mollare il colpo e lasciare il potere del suo minuscolo Stato a qualcuno di più giovane, e forse più motivato di lui, il Vaticano salirà agli onori della cronaca per un altro fatto eccezionale: la partecipazione alla Biennale di Arti Visive di Venezia, che si terrà dal prossimo giugno nella bellissima città della laguna veneta.
È la prima volta che la Santa Sede partecipa a questo evento e la cosa ha suscitato non poche polemiche, soprattutto in riferimento alle parole del Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il cardinal Ravasi, che ha deciso di non intaccare i fondi del suo stato, ma di cercare degli sponsor per coprire i costi di questa nuova impresa.
Il tema della manifestazione saranno i primi undici capitoli del primo libro della Bibbia, la genesi, dunque verranno trattati argomenti come la creazione, il valore della coppia, l’amore, il creato, il peccato originale e quindi anche il male, la violenza, il diluvio universale e la figura di Abramo. Tutti temi che già si possono osservare nel più grande e meraviglioso capolavoro dello stato pontificio: la Cappella Sistina. Poco trapela sugli artisti che verranno chiamati e selezionati, pochi di numero, forse una decina, sia uomini che donne, alcuni famosi, altri meno conosciuti. Si parla di Bill Viola, l’artista americano divenuto famoso per i suoi videro, ma anche di Anish Kapoor e di Yannis Kounellis, ma mancano conferme definitive.
Il presidente della Biennale, il dottor Baratta, sembra aver messo a disposizione della santa sede le Sale d’Armi dell’Arsenale, una superficie su due piani di circa 1000 metri quadrati, che necessita di un restauro. Forse in Vaticano utilizzerà uno solo dei due piani e dividerà lo spazio con un'altra nazione. In ogni caso, deve recuperare i soldi del restauro, che spetta alle sedi ospitanti per scelta della Biennale. Le risorse trovate dovrebbero essere investite nel recupero delle sale, che ora versano in precarie condizioni. Ciò garantirebbe al Vaticano l’usufrutto su questi spazi per 26 anni, e spendendo di anno in anno soltanto i soldi per le spese di allestimento.
C’è chi si chiede se tale scelta sia corretta o meno: il Vaticano possiede sul suo territorio moltissime opere d’arte, alcune in cattive condizioni. Non sarebbe forse meglio investire i soldi nel proprio Stato proponendo lavori di restauro, il recupero di opere d’arte, di strutture architettoniche? Non sarebbe meglio pagare, ampliare l’offerta, magari aprendo alla visita al pubblico alcuni palazzi, organizzando un maggior numero di visite guidate anche in ambienti mai visitati prima? Non sarebbe meglio investire i soldi del Vaticano nel Vaticano, dove hanno lavorato alcuni dei maggiori e più famosi artisti del nostro paese, le cui opere attirano ogni anno milioni e milioni di fedeli?
C’è chi si chiede l’utilità di questa scelta, portata avanti con tanta fermezza da monsignor Ravasi. Si dice che per anni abbia cercato di far accettare la candidatura del Vaticano alla Biennale.
Certo, sarà un modo per far conoscere ad un pubblico ampio l’opera di alcuni artisti internazionali, ma niente di più. I soggetti scelti per questa prima Biennale non sono rivoluzionari e neppure un poco originali: la Cappella Sistina li propone da centinaia di anni.
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