
Mi chiamo Francesco Totti: la recensione del doc, in sala dal 19 al 21 ottobre
“Mi chiamo Francesco Totti” parte dalla notte che precede il suo addio al calcio e Francesco Totti ripercorre tutto il suo percorso, come se lo vedesse proiettato su uno schermo insieme agli spettatori. Un racconto che l’uomo fa in prima persona dello sportivo; ma approfondiamo meglio il taglio del documentario diretto da Alex Infascelli. Dopo esser stato presentato nella sezione Industry del Toronto International Film Festival, non poteva che essere uno dei titoli più attesi della 15esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
«Tutto quello che viene narrato in questo documentario nasce da Francesco. Quello che ho fatto è stato ascoltare questa voce, proteggerla e portarla in una narrazione che io ho supportato con un racconto cinematografico ma il racconto è di Francesco. È stato il mio coregista. Questo non è un documentario indagine, è un film che racconta la storia di una persona che si racconta ed emoziona perché è lui che si emoziona raccontandocela. Ho lasciato che Francesco avesse tutto lo spazio necessario per risuonare, per eccitare la stanza in cui ci troviamo quando lo vediamo e lui lo fa. Quindi gli altri secondo me sarebbero stati fuori luogo perché sarebbe diventata un’indagine, non mi interessava. Il documentario, infatti si chiama “Mi chiamo Francesco Totti”, è un foglio bianco, un tema come a scuola, volevo quella semplicità, perché Francesco è semplice», ha dichiarato Infascelli.
Tenendo conto di questa prospettiva, esplicitata dal regista che esordì con “Almost Blue”, tutto fila. Innegabilmente il lavoro è girato con molta cura, anche tecnica: spiccano la cura fotografica (di Marco Graziaplena) e le scelte di inquadratura nella famosa notte che precede l’addio al calcio del capitano, non solo perché la sua figura campeggia, al centro, all’interno dell’Olimpico, con un volto che dice tutto, ma anche la solitudine che poteva avvertire l’uomo in quel momento. Sicuramente questa immagine, che ritorna più volte all’interno del film, è una di quelle che rimane più impressa nella platea di turno. Nulla da eccepire sulla precisa scelta compiuta da Infascelli e Vincenzo Scuccimarra (quest’ultimo ha scritto con lui sia la sceneggiatura che il soggetto - tratto dal libro “Un Capitano” scritto da Francesco Totti con Paolo Condò ed edito da Rizzoli) perché è stata sviluppata in modo coerente con il punto di partenza (ci riferiamo al libro). Rispettiamo la decisione di far cominciare in voice over il doc e far proseguire per la maggior parte della durata così perché è come se fosse un flusso di pensieri che ripercorre dagli inizi all’«ultima volta che tocca la palla da professionista» - tutti ricordiamo quel momento (tifosi e non).
«E pensare che la prima parola che ho detto è stata palla nel 1977 a Porto San Giorgio», ascoltiamo nei primi minuti, mentre sotto scorrono le immagini di famiglia con un piccolissimo Totti che davvero rincorre la palla, quasi più grande di lui. La decisione di avere come base “Un capitano” segna già in qualche modo il territorio, in quanto davvero, anche per la persona più disinteressata al calcio, il termine capitano (e il coro: un capitano, c’è solo un capitano), oggi, viene associata a Totti, il quale ha tenuto duro, soffrendo anche, e si è ritirato - a malincuore - segnando, però, la propria storia e quella del calcio. Esiste un altro documentario su un altro capitano della Roma (e non solo, avendo giocato anche nel Milan e nella Salernitana), Agostino Di Bartolomei, intitolato “11 metri” e firmato da Francesco Del Grosso, ma in quel caso, la storia personale (non vogliamo rivelarvela perché ci auguriamo che andiate ad approfondire e che abbiate occasione di vederlo) era ben diversa e - volutamente e non - prevale su quella calcistica (per quanto si intersechino) con più voci che entrano in campo a raccontare l’uomo, nel bene e nel male (intendendo per ‘male’ le sue contraddizioni e fragilità).
Francesco Totti ha cominciato all’età di 7 anni nella scuola calcio Fortitudo, per poi essere trasferito alla Smit Trastevere (primo campionato dilettantistico) fino ad arrivare nel 1986 alla Lodigiani. Da qui il passo nelle giovanili della Roma è breve e tutto costellato sì di aspirazioni, ma anche di sacrifici, perché Francesco (ci permettiamo ti chiamarlo così), non nega che proprio quando stava iniziando ad assaporare le uscite previste alla sua età, il dovere e l’amore per il calcio lo hanno portato da un’altra parte.
Senza dubbio ascoltare la parabola calcistica dalla sua voce - a volte rotta, ora ironica, ora arrabbiata - fa un certo effetto e può diventare interessante anche per un non appassionato di calcio; però, per quanto la scelta di non inserire altri interventi sia stata giustificata e di conseguenza la comprendiamo, forse avremmo voluto cogliere altre prospettive o comunque qualche tratto ancora più inedito del campione.
Sicuramente il backstage prima del saluto post ultima partita è una delle scene più toccanti di “Mi chiamo Francesco Totti”, il resto - ci riferiamo all’entrata in campo per il saluto dei suoi tifosi - è passato già alla Storia nel momento in cui è avvenuto, commuovendo tutti, tifosi e non, guardando un uomo che, con gli occhi lucidi, salutava chi lo aveva amato e sostenuto, anche quando dall’interno non tutti lo facevano. «Che cosa devo fare per essere degno di un amore così folle, così assoluto, così esagerato?» si legge proprio nelle prime pagine del libro. Lui tutto questo affetto della gente comune e ancor più dei tifosi romanisti se l’è conquistato sul campo, dedicando 25 anni della sua vita alla squadra e scegliendo di non andare altrove, concludendo la sua carriera di calciatore a testa alta, con il numero dieci stampato sulla maglia giallo rossa.
“Mi chiamo Francesco Totti” fa conoscere meglio il calciatore e il proprio iter a chi non ne sa come può essere ferrato un tifoso della curva Sud e fa cogliere proprio questo aspetto di coerenza, che gli è costata sofferenza. Totti è passato e passerà alla storia per essere rimasto legato alla Roma, essersi preso oneri e onori di esserne il capitano per anni (da romano e da romanista), attraversando diversi modi (legati agli anni) di vivere questo sport, con lui che, però, è sempre stato il campione umile e appassionato - certo il doc, dalla sua viva voce, ci mostra anche quale azione istintiva sul campo di cui ha chiesto scusa.

Maria Lucia Tangorra
Pugliese di nascita e milanese di adozione, pensa che in particolare di teatro e cinema non si possa fare a meno. Giornalista pubblicista, laureata in Lettere moderne percorso 'Letteratura e arti' in Cattolica, scrive in particolare modo di Settima Arte e di quella più antica - quella teatrale - ma negli anni ha ampliato occupandosi anche di tv, mostre, libri ed eventi. Vive nella città meneghina, ma effettua trasferte ad hoc anche per seguire festival di settore.
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